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La modernizzazione e il realismo dell'epica cavalleresca

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 I cavalieri della tavola zoppa
di Marie Phillips
Guanda, 2015

pp. 326
18,50 
Titolo originale: The table of less valued knights
Traduzione di Elisa Banfi

- Nella vita di tutti i giorni, rettitudine e coraggio non sono la prima cosa che si nota in una persona. Anzi, chi cerca a tutti i costi di dimostrarsi retto e prode, di solito è un coglione. Fammi il nome di uno che secondo te sarebbe retto e prode.-
Martha ci pensò su e disse - Lancillotto- [] 
- Lancillotto ha il senso dell’onore quando è in sella al suo cavallo, ma non tra le cosce della regina. Valoroso in battaglia, ma non quando finge di essere il migliore amico di Artù.-

Il giovane lettore dentro di noi, quello che si faceva leggere come favola della buona notte le avventure dei Cavalieri della Tavola Rotonda (e ci siamo passati in tanti!), può solo rabbrividire nel leggere queste parole. Perché di una cosa siamo sempre stati sicuri: la rettitudine, il coraggio e il valore dei cavalieri del leggendario re Artù. Chi mai potrebbe voler infangare il buon nome di quel manipolo di eroi che salvava damigelle, uccideva draghi e combatteva guidato dall’onore?

I cantastorie non ne parlano mai, ma la sala dei banchetti di Camelot non era occupata solo dalla famigerata Tavola Rotonda, quella dove tutti sedevano in cerchio in modo da essere uguali tra di loro e con il loro re. In un angolo, un po' defilata, si trovava un'altra tavola, di forma ovale, detta la "Tavola dei Compagni Erranti”: lì sedevano i cavalieri più giovani, in attesa di fare carriera e mettersi in mostra con qualche impresa che garantisse loro un seggio vicino a re Artù. In un altro angolo, ancora più buio, c’era una terza tavola: questa era rettangolare, con una gamba più corta dell’altra e dove il vino era annacquato. Era nota come la "Tavola dei Cavalieri meno Importanti” e vi sedevano i cavalieri ormai vecchi, inutili e disonorati. C’è da sorprendersi che nessun menestrello ne abbia mai fatto cenno? 
Tra questi decaduti e decadenti compagni siede sir Humphrey du Val, di certo non il più fulgido esempio di prode ed immacolato cavaliere
Il lavoro del cavaliere non è mai finito. Soccorrere damigelle, combattere streghe, tirare giù gatti dagli alberi, aprire coperchi di vasetti. E tutto per l’onore, la ricompensa meno spendibile che Dio abbia creato.
Ecco come la pensa lui sul cavalierato. Eppure, quei giorni un po’ gli mancano. Così quando lady Elaine du Mont si presenta a tarda notte a Camelot in cerca di aiuto, sir Humphrey non ci pensa due volte prima di imbarcarsi nell’impresa. Forse per riconquistare l’onore perduto o forse solo attirato dal bel viso e dai capelli biondi della ragazza. 

Non lontano da Camelot, nel regno di Puddock, la regina Martha non sa rassegnarsi ad un destino che le fa orrore: è obbligata a sposarsi per poter continuare a regnare visto che, dalle sue parti, una regina senza un principe consorte non ha diritto a restare sul trono. Quando poi si scopre che il marito è un cretino disonesto e con seri complessi d’inferiorità, la fuga le appare l’unica soluzione. L’intreccio delle due storie genera un nuovo capitolo della saga di re Artù: sicuramente il più dissacrante che abbiamo mai letto dai tempi di Thomas Malory.

Marie Phillips ancora una volta prende personaggi ed ambientazioni epiche e mitiche e le maneggia, le modifica e le demistifica. Con “Per l’amor di un dio” (qui la recensione) aveva lavorato sulle divinità del pantheon greco. Qui si cimenta con un altro mostro sacro ed intoccabile: i valenti cavalieri di Camelot. 
Se però nel precedente romanzo aveva trasportato gli dei nel mondo moderno adattandoli alla vita del XXI secolo, in questa occasione lascia intatta l’ambientazione medievale e lavora solo sui personaggi e le loro mentalità, modernizzandoli in loco. Così incontriamo cavalieri che pensano che l’onore non valga nulla e parlano male di Galhad, così fastidiosamente perfetto da far venire voglia di prenderlo a schiaffi. Fanciulle che, invece di chiedere aiuto per vendicare il proprio onore, usano i cavalieri erranti per ripescare i fidanzati dalle taverne dove giacciono ubriachi marci. Eredi al trono con tendenze omosessuali che preferiscono simulare la propria morte per vivere nell’anonimato e felici con il proprio compagno.   
Può venire da stringere i denti e pensare: ma non staremo esagerando con questo voler modernizzare ogni tipo di letteratura? Non sarebbe più giusto lasciare l’aura di gloria agli eroi del passato? Poi sorge un altro pensiero: e se non si trattasse di modernizzazione forzata, ma di realismo? Sicuramente, anche ai gloriosi tempi di re Artù, alcuni cavalieri pensavano più alle ricompense che all’onore e di certo non tutti i draghi erano bestie così spaventose da meritare una ballata. Con garbo e ironia tutta inglese e una punta di grottesco di tanto in tanto, Marie Phillips riesce perfettamente nell’intento di smorzare l’aura epica che circonda il pezzo di arredamento più famoso della storia. E, sicuramente, ci toglie ogni illusione sul fatto che tra Lancillotto e Ginevra ci fosse solo un casto amore platonico.