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Quel che vorresti, ma non sei, sotto le luci spietate del giorno

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Le mille luci di New York
di Jay McInerney
Bompiani, 2015

1^ edizione originale 1984 [Bright Lights, Big City]
Traduzione di Marisa Caramella

pp. 155
€ 10,00 (cartaceo)


È peggio di quanto ti aspettassi, uscir fuori nella luce del giorno. Il bagliore è come il rimprovero di una madre. Il marciapiede manda un crudele scintillio. La visibilità è illimitata. I depositi del centro hanno un'aria serena e riposante nella luce obliqua. (p. 13)
Inizi a leggere Le mille luci di New York, lo strabiliante esordio di McInerney, e ti ritrovi accecato da una pagina luminosa come una mattina d'inverno, quando la città si sveglia e porti negli occhi l'intorpidimento di una notte brava. Come il protagonista, che ha appena trascorso una notte brava con gli amici di sempre (amici?), in compagnia di superalcolici e coca. Fin da subito vivrai la sua stessa vita con questa narrazione in 2^ persona che al tempo stesso ti tira dentro e ti tiene a distanza. Senza possibilità di rimandare oltre, lo seguirai sul posto di lavoro, dove arriverete in ritardo, e avrai anche tu paura delle reazioni inconsulte della superiore, Claire, che dimostra da sempre una fredda e spietata avversione per te. Lì, siederai alla stessa scrivania del protagonista, ti scontrerai con i quotidiani problemi di un redattore al Reparto Verifica dei Fatti in un giornale di successo («Gli scrittori sono tutti così: più dipendono da te, più ti odiano», p. 30), tra fantomatici equivoci e ironici piccoli grandi drammi. Sentirai scorrere nelle tue vene anche la frustrazione di chi si trova lì e sperava di arrivare alla sezione narrativa, per cui si sente veramente portato.
Ma qualcosa non va, tutto si inceppa, dopo che il matrimonio con Amanda è naufragato appena lei è diventata una modella famosa, e non sai riprenderti dall'assenza brusca e praticamente immotivata:
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"La vita continua, la gente cambia," è quello che ha detto Amanda. Per lei bastava. Tu volevi una spiegazione, un finale che attribuisse la colpa a chi la meritava, un finale di giustizia. Hai preso in considerazione la violenza e la riconciliazione. Ma quello che ti resta è il presentimento che la tua vita svanirà in te, come un libro letto troppo in fretta, lasciandosi dietro una labile scia di immagini e di emozioni, fino a quando non ricorderai altro che un nome. (p. 109)
E non resta che provare, con goffi tentativi, a riemergere nella luce della città, senza gli occhi pesti, ma con la consapevolezza di farcela. In fondo, le possibilità di riscatto (lavorativo, amoroso, esistenziale) non mancano, ma arrivano a intervalli irregolari. Brancolare tra le opportunità, con risultati alterni e abbastanza scarsi, è forse l'unica strada per tentare di affrancarsi dall'inettidudine.

Anche nella New York di McInerney, come nei campus universitari di Ellis, non c'è una redenzione, gli interventi per riappropriarsi di sé sono casuali e caotici, come se il protagonista volesse ma non riuscisse. Solo lo sballo (meno accentuato che in qualsiasi Ellis o Welsh d'annata) è una possibilità per far tacere il continuo andirivieni della frustrazione. Un gran bel romanzo, sperimentale per la stessa modalità di racconto in seconda persona, ancor più piacevole nell'edizione dei tascabili con gli angoli smussati e la copertina opaca, che fa rinascere gli istinti biblio-feticistici di ognuno. 

GMGhioni