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#CriticaNera | La canzone del sangue: una melodia interrotta.

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La canzone del sangue 
di Giovanni Ricciardi 
Fazi, 2015 

pp. 192
14,50 euro (cartaceo)




Sospeso in un indefinito limbo tra il giallo, la tragedia familiare, lo spin-off “camilleriano”, e la questione femminile in una Sicilia riconoscibile, ma troppo sottratta alla sua eloquente bellezza paesaggistica, l’opera di Giovanni Ricciardi delude chi lo segue dai primordi.
La scrittura si stende limpida e regolare, facendo leva su un linguaggio mescidato che poco si addice alle situazioni (perché connotare tanto marcatamente la parlata di Mario Innotta, e non la costellazione di voci siciliane che si ergono intorno alla torbida vicenda?); la sintassi procede stancamente divincolandosi in una trama che attinge da diverse fonti (il dramma familiare degli Arnone, la famiglia allargata del commissario Ponzetti, la storia di Galloni, il parroco, solo per citarne qualcuna), senza, tuttavia, esaurirne una, anzi, lasciando la sensazione al lettore di trovarsi di fronte a una serie di indizi per un libro che non è mai stato scritto veramente.

Forse il vero giallo è proprio questo: dove voleva arrivare Ricciardi con La canzone del sangue? Forse, in fondo, un qualcosa di affascinante risiede proprio in questa incompiutezza, in questa continua sospensione tra i pensieri del narratore, tra le volontà dell’autore, tra le aspettative del lettore, tra le omertà dei personaggi. Ma l’incompiutezza in questo caso delude, dal momento che non trova una ragione di essere nel suo stesso romanzo.
Persino l’accattivante strizzata d’occhio al personaggio di Camilleri, Montalbano, che si aggira tra le parole del libro come uno spettro senza fissa dimora, disseminando un solo indizio, e lasciando poi la scena del crimine, appare priva di una ratio fondata.
Persino l’acume filologico della ricostruzione della storia di Vitti na crozza, all’interno del romanzo, sembra forzata e troppo sottoposta al capriccio dell’autore nel girarla dal chiaro allo scuro in base alla leggibilità del testo: Ricciardi, tuttavia, si salva in corner mediante la nota storica sulla popolare canzone siciliana, posta in extremis alla fine del libro (pp. 189-191).
Persino il quadrato morboso-amoroso tra Annamaria, il suocero Casimiro, il figlio Matteo e la madre di lei, Concetta, si banalizza nella semplificazione che ne viene fatta, nel mancato scavo tra le effettive relazioni umane intercorse tra i quattro, tra lo sdegno, l’omertà, la paura: e la soluzione arriva, tanto inaspettata, quanto assolutamente infondata e priva di logica, dall’incolpare un personaggio del tutto estraneo alla vicenda, che appare e scompare (nella sua inutilità, sia permesso) in base ai soli dialoghi dei personaggi, privo di uno spessore, di una mente pensante, di un volto.
Persino Ludovico, l’unico personaggio potenzialmente affascinante del libro, perde completamente di spessore nella banalizzazione a giovane follemente innamorato che spia dalla finestra e si prostra, giocandosi a testa o croce l’esistenza, in attesa di una donna che, nonostante tutto, rimarrà sempre schiava di una tela di ragno familiare incestuosa e ambigua.
Persino la nube di personaggi che ruota intorno alla vicenda diventa un semplice escamotage per mandare avanti pigramente la narrazione, con colpi di scena risolti in un fuoco di paglia, con relazioni appena accennate, con luoghi comuni spalmati qua e là.

Nel complesso il libro di Ricciardi appare superficiale, nonostante una scrittura impeccabile (a parte il già citato tentativo di plurilinguismo), limpida e chiara. Una nota di merito ai dialoghi, costruiti sapientemente, in equilibrio tra il volutamente ambiguo e la chiarezza omertosa, in un gioco di cori e contro-cori perfettamente riuscito. L’unica sensazione che fa centro nel lettore (sperando che fosse tra le volontà dell’autore) è proprio questo accavallarsi di voci che dicono e non dicono, che pensano e non pensano, che sanno e non sanno, che vorrebbero e non vorrebbero, che vivono e non vivono, in continua penombra tra l’affacciarsi alla finestra (dietro una tendina) e l’uscire dalla porta (alla luce del sole). Un coro che non può essere paragonato assolutamente alla tragedia greca, semmai alla  mera reazione del pubblico.

Ilaria Batassa