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#CriticaNera. Un caso sacro: "Arrigoni e l'assassinio del prete bello" di Dario Crapanzano

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Arrigoni e l'assassinio del prete bello
di Dario Crapanzano
Mondadori, 2015



Un prete, don Luciano, viene trovato morto la mattina del venerdì santo del 1953 da un cattamucc (un raccoglitore di mozziconi di sigarette) in Piazzale Bacone, a Milano. Dopo pochi minuti sul posto si presenta l'ispettore Giovine, del commissariato Porta Venezia che dà il via a quella che sarà la sesta indagine del commissario Arrigoni. Il compito sembra arduo per il navigato commissario, che alle normali difficoltà che un caso del genere comporta deve aggiungere anche le pressioni che, tramite il vicequestore Respighi, arrivano dall'arcivescovado. La Chiesa, come istituzione, ne vuole uscire pulita e pulita ne deve uscire la figura della vittima.

Ma la squadra del Porta Venezia non si fa intimidire e si fa guidare dall'unico principio che abbia un valore, scoprire la verità e restituire alla giustizia il colpevole, senza però sostituirsi ai giudici, ché il compito di giudicare spetta a loro. Inizia il consueto giro di interrogatori a partire dall'agenda trovata nelle tasche della tonaca del sacerdote. Come negli altri episodi della serie il suo scopo è quello di inquadrare meglio la vittima, i suoi amici e soprattutto i suoi nemici. Ben presto, fin dal primo incontro con il detective Guardaboschi, un investigatore privato amico di infanzia di don Luciano, gli uomini del Porta Venezia scoprono che sul conto del sacerdote circolano malelingue dovute alla sua prestanza e al fatto che si sia circondato di belle donne nell'organizzazione della Filodrammatica parrocchiale. Come negli ultimi romanzi, l'inchiesta sembra condurre a un nulla di fatto, fino a quando uno dei personaggi (in questo caso l’agente Ciro Di Pasquale) ha un'intuizione che si rivela decisiva per risolvere il caso, ribaltando completamente l'impostazione che il vecchio Arrigoni aveva dato all'indagine, fuorviato dai numerosi pettegolezzi sul bell'aspetto del prete.


Sullo sfondo di una ormai familiare Milano degli anni '50, Crapanzano costruisce il sesto romanzo della serie Arrigoni, che mostra ai suoi lettori l'universo di una parrocchia, inventata e per questo esemplare, dell'epoca. Un capitolo, devo ammetterlo, piuttosto fiacco che risente di alcuni schemi ripetitivi (il metodo di indagine), anche se riconosco che la scelta della vittima e la svolta finale salvano la narrazione da un giudizio in toto negativo. Ciononostante, l'ambiente dell'oratorio ne esce appena tratteggiato, niente a che vedere con le belle ricostruzioni a cui ci aveva abituato Crapanzano nei suoi primi romanzi, ma anche nell'ultimo, in cui si era addentrato nel mondo del teatro di prosa meneghino. Anche il quartiere di Porta Venezia sembra in parte aver esaurito il suo appeal. Ai luoghi ormai riconoscibili al lettore (come il caffè Roseto, i Fratelli Altopascio e la Pizzeria Spontini) non si aggiunge granché e i diversivi alla trama gialla sono davvero pochi.

Preciso, però, dando un colpo al cerchio e uno alla botte, che non è tutto da buttare. Arrigoni è un commissario che appartiene al genere giallo classico, tanto che sembra essere stato ideato ben prima della comparsa dei romanzi hard boiled. Alla serie Arrigoni l’etichetta noir sta incredibilmente stretta e il lettore ha la sensazione di avere tra le mani un giallo dell’epoca pre-Scerbanenco. È infatti piacevole leggere inchieste condotte da investigatori che fanno il loro mestiere con eleganza e intelligenza, basandosi quasi esclusivamente sulla loro capacità di osservazione e su ragionamenti logico-deduttivi. Arrigoni è, come ho affermato diverse volte, quanto di più vicino ci sia, ora, a Jules Maigret. Ma pare aver perso brillantezza, Crapanzano come il commissario, tant'è che gli ultimi tre casi li hanno risolti i suoi assistenti, evenienza questa davvero rara. Siamo d'accordo che un'indagine è un lavoro di squadra, ma Arrigoni sta perdendo colpi. E con lui la prosa del suo autore che mi è parsa macchinosa, poco brillante e curata: come se rispetto alle prime uscite (Il giallo di via Tadino, La bella del Chiaravalle) sia venuto a mancare qualcosa, o meglio sia comparsa la ripetitività, sintomo, forse, che la serie e il suo autore hanno bisogno di una pausa. Del resto sei romanzi in quattro anni, e con due editori differenti, non sono pochi.

A dimostrare queste mie parole, che in parte giudicano negativamente e a malincuore il lavoro di Crapanzano, vi sono alcune incongruenze inspiegabili (come una richiesta di alibi per il 3 dicembre, quando il delitto si è consumato il 2 aprile del 1953), che accompagnate all'eccessiva schematicità della costruzione della trama, sembrano anche essere sintomo di una poca cura nell'editing e nella correzione da parte dell'editore. Insomma, la responsabilità non ricade tutta sulle spalle dell'autore, ma anche di chi lo circonda che, forse, si sta sedendo su un successo che lo scrittore milanese si è abilmente guadagnato, ma che non sarà facile mantenere a lungo. Chi ha una minima idea di cosa voglia dire pubblicare un libro, sa bene che si tratta di un lavoro di squadra, che le professionalità che intervengono nel risultato finale sono diverse. Ebbene, in questo caso, sembra essere mancato qualcosa e il romanzo appare allo stato di una bozza, certamente interessante, ma non ancora pronta per essere pubblicata. Una bozza molto asciutta che dà come risultato un episodio smagrito rispetto ai precedenti, in particolare rispetto ai primi della serie. Del resto non è passato nemmeno un anno dall'uscita di Arrigoni e l'omicidio di via Vitruvio, romanzo con cui Crapanzano ha segnato il passaggio dai F.lli Frilli a Mondadori.