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#CritiCINEMA: La stanza della madre. Il complicato atto d'amore di Nanni Moretti

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Lo dico subito. Margherita Buy piange anche in questo film. Così mi metto l'anima in pace con questa figura del cinema italiano di cui non apprezzo la ripetitività con cui le affidano il ruolo della donna fragile, confusa, piagnucolante.
Che rischia di diventare essa stessa un cliché, in quanto attrice e in quanto personaggio interpretato.
Ma stavolta (forse) è diverso.
Stavolta Nanni Moretti le ha affidato un ruolo principale di alter ego nel suo ultimo film Mia madre, nelle sale dal 16 aprile.
E allora cerco, io, di rompere i miei schemi, almeno uno su duecento (esattamente come Nanni suggerisce a Margherita -che è il nome dell'attrice ma anche quello del personaggio, in un gioco di specchi fra reale e suggestione) e provare a capire quello che questo splendido sessantenne del cinema italiano volesse dire con il suo film; le affinità e divergenze fra il compagno Moretti e me.


Ho amato La stanza del figlio (2001), il suo percorso nell'elaborazione di un lutto a posteriori, ondivago e struggente, così delicato, così fine (nella duplice accezione di elegante e dell'analogia col sottile).

Con Mia madre ci propone un percorso di elaborazione del lutto a priori nella storia di due fratelli, Giovanni (Nanni Moretti) e Margherita (Margherita Buy) che assistono la propria madre Ada (Giulia Lazzarini) negli ultimi giorni della sua vita. E parallela a questa, la storia del film che sta girando Margherita -un film impegnato sulla crisi economica e la lotta di un gruppo di operai della fabbrica contro la nuova dirigenza- in cui le difficoltà maggiori sono costituite dal difficile rapporto con il problematico, folle, primo attore Barry Huggins (John Turturro).

Lo spunto è totalmente autobiografico, la morte della madre di Moretti, Agata Apicella, ex insegnante di liceo come la madre del film, durante il montaggio di Habemus Papam, nell'ottobre 2010. E come tale è vissuto, in un amalgama dal fortissimo impatto emotivo.
Le scene senza dubbio più intense del film sono quelle di dinamica familiare.
Quelle, struggenti, fra Margherita e sua madre, il complesso definirsi di un rapporto viscerale e conflittuale, in cui l'inadeguatezza di essere figli lascia spesso il passo alla presa di coscienza che deriva dal momentaneo doversi improvvisare genitori del proprio genitore, troppo fragile e malato per cavarsela da solo.
Ma anche quelle fra i due fratelli, il conflitto pacifico fra la forza di Giovanni che non ammette delazioni nel riconoscere che il tempo di sua madre è scaduto e che non vuole concedere (e concedersi) false speranze e la tendenza di Margherita, come di chiunque sia costretto all'ineluttabile, ad aggrapparsi alle illusioni.

Infine c'è un lavoro sul personaggio/persona/alter ego Margherita, che in un continuo gioco di scambio fra realtà e finzione, chiede ai suoi attori di «stare accanto al personaggio», esattamente come Moretti ha raccontato di aver fatto per la Buy. Il suo senso di inadeguatezza costante declinato in un'alternanza continua di scoppi d'ira e scoppi di lacrime snerva un po' sul lungo termine, ma conferisce a quello che vediamo accadere un surplus di credibilità.
Le stesse battute che, quando sono pronunciate dai vari protagonisti incarnati in passato da Nanni Moretti, danno prova di una lucidità brillante, sempre sopra le righe, sempre intellettualmente vagliata, in bocca a Margherita suonano un po' più patetiche, e molto più umane.

C'è comunque spazio per un paio di momenti di surreale morettiano, un folle giro per le strade di Roma cantando «Bevete più latte» à la Fellini con la testa fuori dal finestrino e un ballo strambo durante la festicciola per il compleanno dell'attore principale che ci ricordano l'amato Nanni di Caro diario (1993).

All'uscita del cinema ero commossa e confusa. Non era il Moretti che mi aspettavo, ma non è forse un bene riuscire a scavallare l'orizzonte delle aspettative?
D'altronde non è la prima volta.
Questo Moretti più intimista, riflessivo, a tratti sentimentale -questo Moretti che, d'accordo, non è il più riuscito, ma esiterei comunque a definire Mia madre un faux pas- ci lascia un documento d'umanità e sul senso stesso di fare cinema. Un complicato atto d'amore, mi verrebbe da dire usando il titolo di un libro di Miriam Toews.
La profondità e la sincerità con cui ricrea la trama di un vissuto (non solo il lutto, ma anche una crisi personale, di stanchezza, dell'artista che gira un film) riscatta in parte il cliché e quello che a una prima impressione mi era sembrato prevedibile, ora, a pensarci bene, mi sembra più vero.


Giulia Marziali