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#TreQuarti14: "Il corpo non dimentica" di Violetta Bellocchio

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Il corpo non dimentica 
di Violetta Bellocchio

Mondadori, 2014
€ 17,00
pp. 274



E allora. A volte dici che essere dipendenti da qualcosa significa avere una storia d'amore epica con te stesso. Come certi eterni passi a due, tra persone che non possono stare separate. Vivere all'interno di una storia; essere una storia. 

Per scrivere un libro come Il corpo non dimentica, più che coraggio ci vuole onestà intellettuale. 
Guardarsi dentro senza autocommiserarsi e senza cercare di abbellirsi, esporsi agli sguardi degli altri senza tante armi di difesa, richiede onestà prima di tutto con se stessi.
Leggendolo ho avuto l'impressione che l'autrice Violetta Bellocchio si sia guardata in uno specchio rotto in mille pezzi e la scrittura sia stata il tentativo di rimetterli insieme. Come? Dicendo la verità. 

La voce narrante è l'autrice e la protagonista; tutte e tre potentemente dicono "io", in un processo di identificazione che sembra totale:
Mi chiamo Violetta Bellocchio. Ho trentaquattro anni. Sono nata a Milano, il quattro nove settantasette, carta d'identità scaduta, vado in giro col passaporto. Non sono mai stata sposata, non sono mai stata incinta, e non riesco più ad abitare da sola. 

Memoir, diario tanto pubblico quanto intimo, Il corpo non dimentica è la storia vera di una dipendenza, la cronaca discontinua di tre anni da binge drinker, cioè "bulimica dell'alcol, una che beve con la stessa ferocia e determinazione con cui altre svuotano il congelatore, la spazzatura, i tolloni dell'olio". 
Il libro inizia con una sorta di cronologia dei fatti della sua vita, e diventa una cronologia degli stati psichici, fisici, emozionali attraverso cui passa un'alcolista. 
C'è un buco nero nella vita di Violetta che va dal 2002 al 2005, tre anni di blackout di cui conserva solo singoli ricordi, flash isolati che, uniti come i puntini del gioco della settimana enigmistica, formano l'immagine della dipendenza, o almeno uno dei tanti volti che questa può assumere. 
Violetta ha scritto un libro che non è una terapia, non è un tentativo sveviano di guarire e allontanare le tentazioni: è un'educazione alla verità.
Ha perduto la memoria di quel periodo ma la recupera attraverso "il gioco delle parole e dei ricordi", propostole dalla terapeuta Meredith (la sua metà buona). Ogni giorno per un intero mese annota delle riflessioni su un diario; il flusso di coscienza parte da ventotto singole parole - famiglia, amore, perdita, caduta, rabbia, hotel, vergogna, sicurezza, vendita... - che la aiutano a dare voce alla vecchia sé, a quella che semplicemente chiama "Lei"
Lei è la sua memoria, la cosa che le si agita nella pancia, la prova concreta della vita che ha fatto. 
Violetta ha l'obbligo di scavare in fondo, attraverso il proprio corpo, fino alle ossa, per riportarla in luce. Solo allora Lei la lascerà stare. 
Il percorso alla ricerca della memoria è spesso faticoso, non lineare e scandito da questa incisiva voce narrante che si rivolge al lettore, lo coinvolge, lo provoca introducendolo in un mondo che siamo soliti spiare dal buco della serratura. Soprattutto di lettrici: Il corpo non dimentica è anche una porta di accesso alla dimensione femminile perché è di alcolismo femminile che Violetta scrive, non di alcolismo e basta. 

Ciò che in assoluto ho trovato più innovativo di questo libro è la prospettiva. Siamo stati abituati a vedere la dipendenza solo come una forza prevaricatrice, un fenomeno che piomba nella vita di un individuo costretto a subirlo. Qui la dipendenza è mostrata come qualcosa che non accade per caso, che si sceglie con consapevolezza e "metodo". Bere è istinto e razionalità insieme. 
Non lo compri, l'istinto.
Una binger ce l'ha dalla nascita perché una binger vuole sopravvivere, deve sopravvivere, per morire ogni giorno di propria mano. 
Per la prima volta emerge una visione della dipendenza come forza vitale che ti assoggetta ma, proprio nel momento in cui ti annulla di più, ti restituisce vita:
Noi accettiamo di diventare dipendenti da qualcosa perché la dipendenza è vita allo stato più puro: la dipendenza è sangue e ossa e seme e acqua, denti e sudore, pelle, fuoco; la dipendenza ci fa stare in ginocchio davanti a qualcosa che non capiamo. E' difficile smettere perché è impossibile accettare che niente ci farà sentire mai più così.
Per questo, anche oggi che Violetta non è più Lei e non tocca più un bicchiere dal 2006, non rinuncia a quell'altra sé, alla donna che fino a ventotto anni l'ha quasi ammazzata, ma di cui ancora ha bisogno. L'ha compresa ma non rifiutata perché "una volta binger, binger per sempre".
L'autrice non ci dice "Guardatemi oggi, sono guarita", ci porta in un passato di scelte sbagliate e di azioni autodistruttive, di serate in stato confusionale e di vetri rotti, di vergogna e inadeguatezza, di corpi messi in vendita e pianti in pubblico.
Libera dalla tendenza a trovare colpevoli, ragioni plausibili, chiavi di volta che spieghino come sia stato possibile cadere così in basso, non va fiera di quello che ha fatto ma, sicura, afferma che "la corsa è molto più eccitante della fermata" e confessa che "la scossa della degradazione è stata più forte di qualsiasi altro bisogno". Questa è onestà intellettuale. 

Violetta non ha scritto un libro solo necessario, ha scritto un testo che spicca anche per originalità e qualità della scrittura. La narrazione è un'alternanza di buio e luce, vuoto e pieno, e ha un andamento che quasi trasmette la sensazione di vertigine.
Periodi brevi, frasi incisive, pagine costruite sull'accumulazione... e poi l'ironia che spesso ti ruba un sorriso complice. 
In realtà noi complici non sappiamo esserlo quasi mai; è per questo a volte ci chiamano "turisti": 
Voi volete vedere troppo, sentire meno. Voi volete allontanare la mano dal vetro. Volete sentirci parlare di noi, lo volete tanto, ma arriva sempre il punto in cui per voi diventa tutto troooppo tossico, e si chiedete per cortesia di smorzare i toni, perché davvero non è possibile. Pensate che niente possa minacciarvi - se tenete i piedi dentro la linea. La dipendenza è rinunciare alla linea. 
Chi non ha vissuto un'esperienza simile sulla propria pelle probabilmente non capirà mai che cos'è questo corpo ingombrante e assoluto, sede delle memoria e di forze che continuano ad agitarsi e chiedono di uscire. Però leggendo Il corpo non dimentica potrete provare per una volta a non allontanare la mano dal vetro e a capire cosa c'è oltre la linea.


Claudia Consoli