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Il cielo vuoto del cristianesimo

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Cristianesimo. La religione del cielo vuoto
di Umberto Galimberti
Feltrinelli, 2012


pp. 416


Umberto Galimberti tiene una rubrica su “D di Repubblica”, il supplemento del sabato del quotidiano diretto da Ezio Mauro. Lo troviamo in ultima pagina e a raccogliere tutte le sue risposte ai lettori, sostanzialmente si tratta di una classica rubrica delle lettere, comporremmo un saggio. Perché bisogna dire che il pensiero di Galimberti è oramai consolidato e ciò che riporta in un libro lo troviamo in un articolo, coerentemente. Non è che un filosofo debba per forza rinnovare, rielaborare, continuamente il suo pensiero. Se sente di essere arrivato a un punto di vista soddisfacente ha il diritto di fermarsi. Perfino di crogiolarsi. Secondo me.
Altro aspetto, semmai, è quello legato a come questo pensiero e questa produzione letteraria si sono affermati visto che Galimberti è stato più volte accusato di plagio. Devo dire, tuttavia, che se non ho già letto il plagiato non posso accorgermi della violazione. Ora, è chiaro che certe riflessioni di questo saggio non sono originali: Galimberti segue tracce solide scolpite da Nietzsche e Heidegger, due giganti, da Emanuele Severino, per restare in ambito di filosofia italiana contemporanea. Ma questo non è plagio, le citazioni paiono stavolta puntuali e alla luce del sole. D’altronde la filosofia nella sua evoluzione è stata spesso un saccheggio, specie di Platone e Aristotele, è il sapere umanistico in sé che è retorico, è un lavorio su altri testi sui quali i posteri sigillano i loro commenti oppure, se meno dotati, semplici note a margine.
Entriamo adesso dentro al testo, che si legge agevolmente pur trattando temi non semplici che vanno dalla metafisica alla teodicea. Voglio essere generoso con Galimberti, perché se alcuni, sottolineo più prestigiosi di me, cito Vito Mancuso, hanno evidenziato una certa contraddittorietà nell’atteggiamento che l’autore ha verso il cristianesimo, provo a rilanciare dicendo che è il cristianesimo a essere vissuto in una profonda contraddizione. Vediamo quale.
Partiamo dalla parola sacro, seguendo Galimberti: significa separato. E questa è l’essenza di ogni religione che recinge l’area del sacro e la separa dal resto degli uomini che vedono questo recinto come intangibile, al massimo avvicinabile con i riti, ai quali sono peraltro preposte certe persone, anche in questo caso separate dal resto della comunità. Allo stesso tempo, se il sacro è ben recintato, non si espande incontrollatamente e non diventa uno tsunami di irrazionalità che travolge la piccola isola della ragione, sto parafrasando Kant, con la quale l’uomo prova a mettere ordine nel suo mondo fisico e morale. Dentro questo recinto, chi lo abita, il sacro appunto, resta qualcosa di indifferenziato, uno sfondo indistinto, dove non esiste giusto e ingiusto, bene e male, ci sono anzi giorno e notte, bontà e violenza, inverno ed estate.
Il sacro è qualcosa di indecifrabile che gli uomini hanno provato a tenere lontano, separato, i greci ad esempio nel mondo degli dei. La grecità, dunque, aveva fortissimo questo senso originario. La violenza e il dolore non erano rimossi ma vissuti come ineluttabili leggi naturali, cicliche, che sempre ritornavano. La tragedia nasceva da questa potente premessa e arrivava laddove l’uomo sfidava la legge degli dei, da Prometeo ad Antigone. Poi, nella cultura greca arriva la lacerazione, il progressivo distacco dal sacro con la polis, con la civilizzazione, con la metafisica, con la ragione, con le leggi grazie alle quali si distingue il buono dal malvagio.

Uno degli ultimi grandi esempi di sacro è Dio che impone ad Abramo di uccidere il figlio Isacco: è la tradizione giudaica dalla quale nasce il cristianesimo. Dove sono morale e bontà a imporre a un padre di sgozzare il proprio figlio, avuto peraltro dopo tanti sforzi a quanto dice la Bibbia? La risposta non può essere data con categorie umane ma divine, sacre. Nel sacro non ci sono etiche, comanda l’indifferenziato.
Il cristianesimo da una parte ha rinunciato totalmente a questa dimensione sacra, a forza di elaborare ciò che è bene e ciò che è male. Il cristianesimo si è fatto storia, il tempo è diventato escatologico, ha cominciato a guardare avanti, non indietro come il tempo greco che nel passato vedeva l’età dell’oro perduta, al futuro, con quest’ultimo diventato tempo di salvezza eterna. Il cristianesimo si è calato fra gli uomini, perfino Dio si è fatto uomo. Fino a entrare di prepotenza nella morale per condizionare ambiti che potrebbero essere tranquillamente risolti dalle leggi umane: divorzio, aborto, fecondazione assistita, eutanasia. Il cristianesimo come agenzia etica.

Dall’altra parte, ed ecco il paradosso, il cristianesimo nella sua evoluzione, ha abbandonato la tradizione giudaica dal cui alveo era sorto per andare a farsi religione confidando nello strumento principale, la metafisica, di quella cultura, la Grecia, che aveva elaborato tragicamente il senso del sacro. Il cristianesimo nei secoli è stato sempre meno quello delle scritture bibliche e sempre più platonico-aristotelico. Non è tanto la concezione aristotelico-tomistica dell’universo a interessare ma l’appropriazione della metafisica greca nella sua essenza più pura. I due esempi più calzanti: l’anima, inesistente per la cultura giudaica e la religione cristiana fino ad Agostino che ne mutua il concetto dal suo inventore, ovvero Platone. Il secondo esempio è la prova cardine dell’esistenza di Dio, introdotta da Anselmo d’Aosta e arrivata a Kant attraverso la scolastica. Si chiama ontologica: siamo al cuore della metafisica, della razionalità.

La crisi del cristianesimo è la crisi dell’Occidente perché ogni sua branca del sapere, ogni disciplina scientifica o umanistica si è fondata sulla matrice cristiana del tempo progressivo, del futuro che diventa compimento. Anche le teorie fondate dagli atei più arcigni, Marx e Freud, vedono il passato come male, che sia il peccato originale, che sia la schiavitù del proletariato, che sia la nevrosi non cambia la prospettiva, il presente come momento di redenzione e il futuro come bene: chiamalo resurrezione dei morti, comunismo o guarigione. E adesso che la crisi è profonda, non ci sono filosofie, culture europee pregresse da… saccheggiare. È stato già fatto.

Dio è morto vuol dire che se oggi eliminassimo la parola Dio, riusciremmo ancora a comprendere il contemporaneo. Eliminassimo le parole tecnica e denaro, no. Magari a uccidere Dio ha contribuito proprio il cristianesimo a forza di diventare una religione di terra che non alza più gli occhi a un cielo svuotato.