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#LibrinTrincea - Dalton Trumbo, "E Johnny prese il fucile"

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E Johnny prese il fucile (Johnny got his gun, 1939)
di Dalton Trumbo
Traduzione dall'inglese di Milli Griffi
Bompiani, 2003 (prima edizione italiana 1949, edizione di riferimento per questa recensione 1972)

pp. 250



Lui era un uomo morto con una mente che sapeva ancora pensare. Lui sapeva tutte le risposte che sapevano i morti ma loro non potevano più pensarle. Lui poteva parlare per i morti perché era uno di loro. Lui era il primo soldato fra tutti quelli morti dall'inizio dei tempi che avesse ancora una mente con la quale pensare. Nessuno poteva avere qualcosa da ribattere. Nessuno poteva dimostrare che si sbagliava. Perché nessuno sapeva tranne lui.
Il nome di Dalton Trumbo è legato alle vicende della Commissione di inchiesta sulle "attività antiamericane" che lo interrogò durante il periodo della "caccia alle streghe" contro i nemici degli Stati Uniti (allora erano i Comunisti, prima lo erano stati i Giapponesi, oggi lo sono i terroristi, domani forse i Marziani); al pari di altri intellettuali che come lui si rifiutarono di rispondere alla Commissione, nel 1950 Trumbo fu incluso in una lista di proscrizione e condannato a un anno di prigione per oltraggio al Congresso.

Trumbo non risulta fra i grandi della letteratura americana contemporanea, avendo lavorato più che altro come sceneggiatore di film per l'industria cinematografica hollywoodiana, tanto che nel 1971 sceneggiò e diresse egli stesso il film tratto da questo libro.
Nonostante questo, E Johnny prese il fucile è forse il romanzo antimilitarista per antonomasia, comunque una delle opere più famose in cui vi siano il rifiuto della retorica patriottico-nazionalista e la condanna senza appello della guerra.
La prima guerra mondiale cominciò come una festa d'estate, tutta gonne al vento e spalline dorate. Milioni e milioni di persone sventolavano i fazzoletti dal marciapiede mentre le piumate altezze imperiali, le serenità, i feldmarescialli e altri idioti del genere sfilavano per le strade delle principali città d'Europa alla testa dei loro scintillanti battaglioni.
Era un momento generoso, il momento delle vanterie, delle bande, delle poesie, delle canzoni, delle innocenti preghiere. [...] Nove milioni di cadaveri si contarono alla fine quando le bande si zittirono e le serenità cominciarono a scappare, mentre il lamento delle cornamuse non sarebbe stato più lo stesso.
Un libro antiretorico fin dal titolo, che è idealmente la risposta a una canzoncina patriottica in auge fra i soldati del corpo di spedizione USA in Europa nel 1917 (Over There di George Cohan) che dice "Johnny get your gun and take it on the run".

Scritto nel 1938 e pubblicato l'anno seguente, il libro presenta ciò che resta di un soldato americano ferito gravemente negli ultimi giorni della Prima Guerra Mondiale e ricoverato in un ospedale militare. Joe Bonham, questo il suo nome, è ridotto a un ammasso di carne dopo che l'esplosione di una bomba gli ha strappato braccia e gambe e gli ha portato via la faccia, lasciandolo muto, cieco e sordo, senza tuttavia danneggiarne le funzioni cognitive, che gli permettono di prendere coscienza del proprio stato, attraverso un processo psichisco-sensoriale reso difficile dalla sedazione, che lo costringe a un continuo fluttuare tra momenti - rari - di lucidità e immersioni nei ricordi recenti e lontani.
Impossibilitato a comunicare con il mondo, Joe tenta di farsi capire muovendo la testa (quello che ne rimane) secondo il codice Morse. Trovato un interlocutore in grado di capire il codice, Joe chiede di essere esibito al mondo perché tutti si rendano conto di cos'è veramente la guerra. È scontata la risposta che gli viene data, poiché ciò che chiede è contrario al regolamento, unico e indiscusso riferimento, autentica bibbia dell'ottuso establishment militare.

Portatemi nelle università nelle accademie e nei conventi. Chiamate tutte le ragazze le belle ragazze giovani e sane. Mostratemi loro a dito dicendo ecco ragazze vostro padre. Ecco il ragazzo gagliardo della notte scorsa. Ecco il vostro figlioletto il vostro bambino il frutto del vostro amore la speranza del vostro futuro. [...] Portatemi davanti ai parlamenti alle assemblee ai congressi e ai consigli di stato. Voglio essere là quando parlano di onore e di giustizia e di salvare la democrazia nel mondo e fanno appello ai diritti dell'uomo e all'autodeterminazione dei popoli.

Un testo crudo e violento, narrato con uno stile diretto e scarno perfino nella punteggiatura, che segue il flusso di coscienza e i deliri del protagonista e che permette incursioni nella psiche di quest'uomo prigioniero di un corpo devastato e completamente avulso dal mondo circostante, quasi un "milite ignoto vivente", ammesso che una simile condizione possa essere considerata vita. Un richiamo diretto alle gueules cassées, quei reduci della Grande Guerra che riportarono ferite disastrose, degne di un museo degli orrori, ma che furono condannati a sopravvivere grazie al progresso della medicina e all'abilità dei chirurghi.

La condanna della guerra è assoluta anche in quanto strumento di oppressione e sfruttamento della classe lavoratrice da parte dell'oligarchia capitalista, che prospera spingendo gli uomini a massacrarsi coprendo l'oscenità intrinseca alla guerra e l'amoralità del proprio agire con termini nobili e altisonanti quali "libertà" e "democrazia":
Stavano sempre combattendo per qualcosa i bastardi e se uno osava dire al diavolo la guerra è sempre la stessa solfa tutte le guerre sono uguali e nessuno ce ne cava niente di buono allora ti gridano in faccia che sei un vigliacco. Se non combattevano per la libertà combattevano per l'indipendenza o la democrazia o la liberazione o la dignità o l'onore o la patria o per qualsiasi altra cosa che non significa niente. La guerra si faceva per salvare la democrazia nel mondo nei piccoli paesi in tutti gli uomini. Se la guerra fosse finita in quel momento allora la democrazia nel mondo sarebbe stata salva. Ma lo era davvero? E quale tipo di democrazia? E quanta? E di chi?

Come dire, la storia si ripete. E nessuno impara nulla.

Stefano Crivelli