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#CriticaLibera - La voglia di vivere che strazia la poesia: Manfridi e Sorrentino

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«L’uomo è, per sua natura, un ascoltatore di storie»: senza orpelli, senza barocchismi, senza forestierismi, Giuseppe Manfridi definisce lo storytelling. Dove finisce la realtà e dove inizia la “propria realtà”? Dove finisce il “così è” e dove inizia il “così vorrei che fosse”? Forse in quell’interstizio che la letteratura, l’arte, il teatro, la musica, il cinema, più in generale, quindi, la cultura creano. 
L’uomo crea storie affinché l’altro le ascolti, affinché possa essere raggiunta un’efficacia comunicativa, affinché si sortisca un effetto. E l’altro le ascolta, si lascia affascinare, lascia che facciano effetto. 
«Il teatro [quello con la T maiuscola] è specchio riflettente e deformante, occhio critico della realtà»: Claudio Boccaccini, regista sodale di Manfridi, chiosa così l’affermazione riportata in incipit. 
È impressionante come il dialogo tra l’autore (Manfridi) e il regista eletto (Boccaccini) abbia colto l’urgenza del problema che tutti (giovani, meno giovani, donne, uomini) vivono: questo “disagio” si può riassumere con un’immagine usata da Manfridi per giustificare un refuso. «A volte non si legge, si guarda»: a volte non si vive, si sopravvive. Ci si accontenta, si galleggia.
Come si esce dalla sopravvivenza per entrare nel vivere? Attraverso il notare un incontro, attraverso il pensare: «Ci aveva costretti a pensare cose mai pensate prima, e soprattutto, a pensarle a lungo». 
Silvia Brogi (portavoce delle parole più profonde di Manfridi) interroga incessantemente, durante tutta il monologo La Supplente. Costringe, con la sua arte e la sua bravura, a lasciarsi interrogare, provocare, scuotere: in quel luogo pieno di spazi (si inverte la definizione di Mafridi «spazio pieno di luoghi»), in quell’ora piena di istanti, avviene il miracolo. L’incontro, ma anche la consapevolezza. Una domanda continua, un «dubbio atroce», che mette chiunque di fronte a un eccesso: la realtà. 
Il teatro diventa “eccessivo” perché “eccessiva” è l’urgenza del reale. E costringe a starci: in un vortice, in un naufragio, in una «cruna dell’ago». Si passa attraverso, liquefatti e ricomposti: e si prosegue, in un cammino, che non può prescindere dall’impegno e dalla responsabilità che si sono assunti attraverso lo stare a sentire la supplente. 

È l’eccezionalità la chiave di volta: «non confondetemi con quella che non c’è, d’accordo? … Io non sono la vostra professoressa. Io sono la vostra supplente»; «Nello stesso atomo di immensità. Io e voi, dentro questa scatoletta, miracolosamente insieme»; «Magari per una sola volta nella vita anche un minore può assurgere alla statura di un maestro»; «Un lampo. Essere quel lampo […]. Un istante infinito»; «Un consiglio …. Colpo di spugna. È la cosa migliore». Eccezionalità di identità, di tempo, di spazio, di ruolo, di ricordo, di modus vivendi e operandi, di vita. 
L’eccezionalità è il viceversa: è il vedere il reale come un abbraccio di ossimori, ma pur sempre abbracciati. 
È questa la speranza che Giuseppe Manfridi, Silvia Brogi e Claudio Boccaccini donano: «Non si può arginare uno tsunami con un ombrellino di carta»; ma, per lo meno, si può cominciare con l’aprire l’ombrellino.

Lo stesso ombrellino è aperto anche da Paolo Sorrentino ne La grande bellezza: film che fa parlare, perché provoca, perché butta sulla piazza quella semplificazione mascherata che alberga in ogni respiro del cosmo. Cosa c’entra con il teatro di Manfridi? Perché questo parallelo? Perché entrambi affrescano l’eccesso, passando per la cruna dell’ago della letteratura. «Ero destinato alla sensibilità. Ero destinato a diventare uno scrittore». La sensibilità che solo la letteratura comprende, e fa vivere nel pieno del suo splendore, diventa parola, diventa scrittura: e non è un caso che Sorrentino faccia raccontare al protagonista la sua visione, amara, dalla sua prospettiva (si pensi alla scena del “galateo” dei funerali). Sorrentino scardina la mondanità di Roma, Manfridi scardina una classe di liceo. Siamo di fronte a una mise-en-abime? O siamo di fronte a un affresco da ammirare e basta? Forse, siamo di fronte alla realtà, ma senza che ce ne accorgiamo. Quella realtà che può essere raccontata, che si nasconde sotto l’orologio spostato e frenetico del mondo: «è tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore, il silenzio e il sentimento, l'emozione e la paura… Gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza. E poi lo squallore disgraziato e l'uomo miserabile» (da La grande bellezza).

Ma forse il vero denominatore comune è l’incipit (tratto da Viaggio al termine della notte di Louis Ferdinande Cèline) del film premio Oscar, che potrebbe essere, però, anche la clausola del monologo di Manfridi: ciò che chiude il cerchio, o meglio, che chiude il cubo. Perché citando Savinio, la vita, la realtà non ha spazio per il cerchio, non lo ammette, perché impossibile. La realtà e la vita vanno prese come un cubo dalle prospettive varie: l’importanza non è la prospettiva che si sceglie. L’importanza è il viaggio che si fa, il cammino, il percorso, i bivi che si incontrano e che costringono a una scelta, tra la prospettiva vecchia e quella consapevolmente nuova e misteriosa:
Viaggiare, è proprio utile, fa lavorare l’immaginazione. Tutto il resto è delusione e fatica. Il viaggio che ci è dato è interamente immaginario. Ecco la sua forza. Va dalla vita alla morte. Uomini, bestie, città e cose, è tutto inventato. E’ un romanzo, nient’altro che una storia fittizia. Lo dice Littré, lui non si sbaglia mai. E poi in ogni caso tutti possono fare altrettanto. Basta chiudere gli occhi. E’ dall’altra parte della vita.

Ilaria Batassa