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#Scrittori in Ascolto - Con Sandro Bonvissuto

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Sandro Bonvissuto e Marco Caneschi

Ho incontrato Sandro Bonvissuto un giorno a Lucca, quando per il suo racconto sul carcere, il più invasivo dei tre che compongono “Dentro” (Einaudi, 2012) era stato invitato a parlare nell’ambito di un’iniziativa proprio sulla condizione carceraria.

Ad Arezzo è stato ospite della Biblioteca e della libreria Feltrinelli. Poi ce ne siamo andati a cena e a bere una birra. Nel mezzo, non ha sentito ragioni: c’era Bologna-Roma, così a casa mia gli ho fatto gustare la vittoria della maggica. Da buon juventino ho gufato in silenzio e rispettato la sua gioia finale. L’ospite è sacro.

 
 «Lo sapete che stanno pensando a carceri private? Non è assurda l’idea? Cioè: un’impresa va dallo Stato e chiede di aprire una prigione. E se tutto è in regola, gli rilasciano l’autorizzazione come per un bar o una pizzeria. Solo che è ’na galera». Non possiamo non partire da questo argomento, non c’è nulla da fare, il primo racconto è davvero potente ed è quello di apertura.
«Del protagonista, ma un po’ di tutto quel mondo, non ho voluto ricordare il perché sia finito là dentro. La mia è una galera senza reati, per non condizionare nessuno. Ho visionato tonnellate di lettere di detenuti, le carceri sparse per l’Italia e questo non può lasciare indifferenti. Ci sono i numeri, l’alta percentuale di chi sta in attesa di giudizio, quell’altra composta da immigrati, quell’altra ancora da chi ha commesso fatti legati al possesso e allo spaccio di stupefacenti. Di numeri ne ho parlato, con l’amico Ascanio Celestini, ma io ho scelto la strada della letteratura, della parola, che è quella che consente di lasciare, in chi accetta il confronto, uno stadio di interrogazione permanente, di attività emotiva partecipe. Questo è l’uso fondamentale che di un libro bisogna fare».

Un libro fatto di pareti opprimenti, di muri che recludono… dentro. Ecco un passaggio emblematico: 
“il muro è il più spaventoso strumento di violenza esistente. Non si è mai evoluto, perché è nato già perfetto. Non è una cosa ma un’idea che fa male”.
«Mi sono voluto avvicinare a questi muri. Sono andato, a Regina Coeli, a Rebibbia, restando però dall’altra parte, sul marciapiede della strada. Se lo fate vi accorgerete che solo pochi centimetri separano dal cortile dove si muove chi sta di là. Il muro è lo stesso ma voi lo vedete in un modo e un altro essere umano di cui potete immaginare il respiro, tanto è vicino, eppure irraggiungibile, lo vede diversamente».

Il libro di Sandro è composto da due ulteriori racconti di straordinaria capacità… speleologica: dopo il carcere, ecco la scuola, poi finalmente una strada aperta dove un bambino anela a che suo padre gli insegni ad andare in bicicletta. È come la vita a ritroso di una persona. Ma non è detto che sia per forza così, possono essere anche tre individui diversi a vivere queste esperienze. Importante è il modo di leggere tali passaggi: carcere, scuola, bicicletta. Salta agli occhi come l’autore proceda a una progressiva destrutturazione del muro fisico: cominciamo laddove si erge il muro per eccellenza, entriamo in un’aula scolastica dove le pareti sono meno drammatiche, infine ecco uno spazio non angusto. Il muro fisico pare crollare, ma quello intimo?
«Dentro la scuola restano muri fortissimi tra i due amici che consolidano un’unione quasi morbosa e il resto del mondo. Tra il loro ultimo banco e i compagni di classe, le famiglie, l’istituzione, c’è un solco. Nell’ultimo racconto ci sono altre barriere invisibili: una tra padre e figlio e corre lungo il binomio insegnare-imparare. Una, sulla strada dove il bambino cerca di pedalare, separa metaforicamente ma altrettanto fortemente il punto di partenza e il potenziale punto di arrivo. Questo mi porta a suggerire un’altra chiave di lettura del libro».

Dicci Sandro.
«Ho voluto ricordare quello che è il cammino di un uomo, di ogni uomo. Dopo che abbiamo destrutturato a ritroso il muro fisico, ripartiamo stavolta dal fondo per risalire all’inizio: un bambino solo a sfidare una striscia d’asfalto. Quando avrà pedalato per cento metri, si guarderà le mani, saranno quelle di due minuti fa e l’adulto è sempre il padre che lo guarda, non lui. Eppure non sarà più quello di prima, quel piccolo sforzo è in realtà enorme, uno choc di crescita indimenticabile. Ci troviamo dinanzi a Uno e all’acquisizione della consapevolezza individuale. Con il secondo racconto c’è la rottura dell’esclusività che avviene in un banco e a seguito del caso. Non esiste disegno nella vita, non esiste disegno che fa sì che sia proprio quel tizio a sedersi accanto a te. Però succede e si passa a Due. Nel carcere arriviamo al confronto con i Tanti perché, al di là della promiscuità fisica, seppure rinchiusi, i pensieri dei detenuti sono talmente complessi che possono avvicinarsi all’infinito».

Per concludere, “Dentro” cosa è stato per te, oltre che un fatto decisivo nella tua vita di cameriere «da Candido», non lontano dalla fermata Cipro della metropolitana di Roma, e da laureato in filosofia?
«Sto cercando di chiudere con questo libro. Poi un giorno vado a Barletta e parlo a centinaia di studenti e questi studenti mi lasciano dei pensierini scritti che ho letto per tutto il viaggio di ritorno in treno per Roma. Quant’ho pianto, ahò! Sono sceso a Termini che chi mi vedeva chiamava l’ambulanza. Io ho cercato di scrivere da lettore un libro per i lettori, un libro per cui avere un’aspettativa di lettura. Non c’ho messo niente di mio perché ritengo che il valore più grande della letteratura sia l’universalità. E non bisogna neanche inventarsi chissà cosa: i giganti hanno raccontato storie semplici, storie di strada, di bottega, di insetti. Qualche mattina alzo le coperte e controllo se so’ diventato ’no scarafaggio come Kafka. Quindi mi alzo e sto in Patagonia con Chatwin o in un solaio parigino con Baudelaire. Senza avere mai visto ne l’una né l’altro».

Verremo a trovarti, amico. Per me bucatini all’amatriciana e coda alla vaccinara.