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Inverno della nebbia: Pascoli e De Andrè

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«I ponti non sono fatti per confondere le rive, sono fatti per portare gli uomini da una sponda all’altra, lasciando loro la coscienza di essere sull’una, o sull’altra sponda». 
La chiosa di Lello Voce alla dichiarazione del 1979 di Fabrizio De Andrè («rifiutavo questa etichetta di poeta che volevano per forza applicarmi addosso: cercavo soltanto di gettare un ponte tra la poesia e la canzone, e mi servivo della musica come un pittore si serve della tela») ha permesso il parallelo che si propone tra Inverno del cantautore genovese e la poesia Nebbia di Giovanni Pascoli. Andrea Cortellessa sottolinea come «l’immagine del ponte è importante non solo per il collegamento, ma anche per il trasporto»: dove trasportano, quindi, De Andrè e Pascoli? 
È indubbio che ci si trova di fronte a due grandi rivoluzionari, i quali hanno guardato alla realtà secondo un principio di complessità, mettendo sul tavolo i problemi, restituendo al lettore e all'ascoltatore la domanda e l’urgenza. La pretesa di risposte è abbandonata nel momento stesso dell’atto creativo, il quale predilige la dimensione dell’indistinto, della sensazione, del razionale che scivola da ogni parte, di una prospettiva interna ed endofasica: Pascoli e De Andrè non solo abbandonano ogni diaframma, ma costruiscono un loro cronotopo scenografico attraverso dettagli minimi e, in apparenza, insignificanti. Che il loro scopo sia quello di far passare attraverso le parole qualcosa che travalica la dimensione prettamente umana, comunque tenuta sempre presente dalla coda dell’occhio? Che il vero baricentro non sia il tempo, ma uno spazio indefinito e indefinibile per eccellenza, che si situa prima della coscienza? Che quel «sogno infinita ombra del vero» pascoliano sia l’«ombra incerta del divenire» di De Andrè? Che il campo semantico prediletto sia quello del “sembrare” perché permette una proiezione introspettiva che nulla ha di assoluto e di oggettivo?

Forse non è un caso che il cronotopo privilegiato della canzone di De Andrè e della poesia di Pascoli sia proprio la nebbia: interlocutrice del poeta questuante e, si ipotizza, anche del cantautore genovese. Se il refrain pascoliano («Nascondi le cose lontane») è chiaramente una preghiera alla nebbia, si potrebbe azzardare che anche quello “deandreiano” possa esserlo: «ma tu che vai, ma tu rimani». Come se il susseguirsi delle stagioni dovesse rimanere indefinito e sfuggente, proprio per la sua circolarità irrisolta. Come se anche la nebbia di Inverno, che «sale sui prati bianchi», dovesse nascondere «le cose lontane», nello spazio e nel tempo, lasciando alla terra la possibilità di dormire nel «silenzio di un sonno greve», permesso da una neve consolatrice (paradosso antirealistico).

E forse non è un caso che l’atmosfera ambiguamente lugubre sia bianca: tinta privilegiata tanto da Pascoli («bianco/di strada») quanto da De Andrè (la neve, i «teschi di cera», il biancospino). Si potrebbe pensare che entrambi preferiscano l’indistinto «impalpabile e scialb[o]» all’oscurità, la quale è facilmente riconducibile a una condizione, quella della morte. Mentre la nebbia è stato di cosa? Di un qualcosa che è, ma potrebbe anche non essere; di un “in fieri”; di un trapasso abbozzato; di un pulviscolo; del sembrare; di un livello che passa o molto sotto o molto sopra la sfera umana. E, sia nella canzone sia nella poesia, la spia che ci si trova di fronte a uno sconvolgimento di piani realistici e naturali è, senza dubbio, l’elemento di confusione tra gli elementi. I versi 5 e 6 di Nebbia presentano «lampi notturni» e «crolli d’aeree frane». De Andrè individua in un «campanile che non sembra vero» il «confine fra la terra e il cielo» e sovrappone il momento dell’alba a quello della sera, come se la morte della luce «nell’ombra incerta di un divenire» potesse annullare il tempo umano in un’immobilità di cera, eterna (i «volti», lemma fortemente connotante della sfera fisica dell’uomo, diventano «teschi», per di più «di cera»). Da questo sconvolgimento di piani nascerebbe, a parere della scrivente, la cristallizzazione prismatica delle dimensioni spaziali e temporali. È come se il presente, rappresentato sia da De Andrè sia da Pascoli dal cipresso che, solitario, si erge, racchiuda tutti i «mille secoli» in un’unica alba, «antica», di cera. Come se la quiete, rifiorita attraverso le gioie che vengono, però, dal passato (e, quindi, soprattutto per Pascoli, da qualcosa che non c’è più, che è lontano, e quindi nascosto), si trasmuti in una pace rassegnata, ciclica. 


Un’ultima considerazione, o meglio, un’ultima interrogativa: dove si trovano De Andrè e Pascoli, rispettivamente, in Inverno e in Nebbia? Sono autori onniscienti? Sono nella scena? Sono appena prima del paesaggio? Sono sulla soglia? Forse sono, contemporaneamente e contestualmente, in tutti e in nessun luogo. Sono ovunque: nella pienezza, nell’assenza, nel passato, nel presente, nel futuro. Sono nella nebbia, nell’indistinto. Perché la grande scommessa di poter essere dentro la propria creatura, l’opera artistica, forse è proprio questa: restituire il senso di precarietà pur rimanendo, pur chiedendosi perché si rimane. Perché mettendo nell’abisso della scrittura e della musica si può dire qualcosa passando per dentro, facendosi osservatore privilegiato della propria materia narrata e cantata. Perché nel momento in cui si affronta la propria nebbia, nel momento in cui la si riconosce, allora c’è anche la speranza di attraversarla e superarla. Chiudendo, nel futuro, il discorso e aprendo nuove strade, conosciute, sconosciute, impervie, aspre, pianeggiante. Ma pur sempre strade, sinonimi, quindi, di mutamento, di divenire, di cambiamento. 

Ilaria Batassa