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#CriticaLibera - Chiediamo l'obbligo della verità su Ilaria e Miran

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Ci sono mestieri e professioni, e poi ci sono vocazioni, che possono essere affrontate come mestieri o come professioni, e sono tante le storie che parlano di persone con doti o doni nel saper fare qualcosa, di norma legate al mondo artistico o creativo. 
Le parole, però, i mestieri o le professioni che hanno a che fare con le parole,  non si sa bene dove inquadrarli. Possono essere un dono le parole, ma  bisogna coltivarle e indirizzarle; possono essere un mestiere, ma bisogna piegarle alla logica dell’utilizzo; possono essere una professione, ma bisogna sentire il peso di ciò che si racconta. Sono perciò accompagnate, sempre, da una vocazione. La vocazione di vedere il mondo sotto forma di parole, non vuote, non leggere, non passeggere. Parole piene, pesanti, che si fanno spazio in mezzo all’indifferenza, che toccano le corde di un cuore e arrivano alle radici di un problema.
 Per disporre così delle parole ci vuole esercizio al sacrificio, ci vuole il coraggio della fatica e dell’ignoto e una grandissima apertura. Verso gli altri e verso noi stessi. Per ciò che siamo disposti ad ascoltare e ad accettare, per ciò che siamo disposti a rischiare semplicemente perché va fatto, perché qualcuno deve farlo. Questo muove ancora la categoria umana verso posti scomodi, calcolando i rischi, ma infischiandosene a un certo punto e assumendosi in prima persona il peso delle parole – proprie – e delle storie –altrui -.
Se si cerca una ragione nel lavoro di alcuni giornalisti, nel lavoro degli inviati in aree di crisi, la risposta sta tutta qui: l’obbligo del raccontare; la stessa che ha mosso Ilaria Alpi e Miran Hrovatin verso il loro destino, il 20 marzo 1994, e che continua a muovere le persone che li hanno conosciuti e che credono nell'eredità del tramandare, del far conoscere.
Si ereditano tante cose, si ereditano le colpe dei nostri padri, si ereditano i difetti dei genitori, si ereditano i tratti somatici dei nostri avi, ma ereditare la responsabilità della verità,  da un figlio, è un fardello pesante. La mamma di Ilaria lo sa, e continua a farlo, e lo sanno gli amici e i colleghi, che continuano a scrivere ancora pagine su quella storia, per far sì che la responsabilità della verità ricada come è giusto su tutti noi. Su chi chiede a gran voce una risposta alle ingiustizie, su chi delega agli altri la propria voce e su chi quelle risposte le sa ma continua a tacerle, forse per sempre.

Eppure a poco a poco i motivi di quei colpi sparati a bruciapelo su una giornalista e un cameraman, a furia di cercarli, verranno fuori, se non da verità giudiziarie, sempre più lente dell’evidenza sembrerebbe, da verità logiche. Cosa cercava Ilaria? Perché hanno voluto spegnere la sua voce per sempre? Una fatalità proprio nel momento in cui aveva annunciato una scoperta clamorosa? 

Su questi interrogativi si è concentrato anche Francesco Cavalli, ideatore e direttore del Premio “Ilaria Alpi” e autore del romanzo “La strada di Ilaria”, che racconta le inchieste che in quei gironi l’inviata del TG3 stava conducendo in Somalia, dove aveva trascorso diversi mesi ed era tornata più volte.
Bisogna ammettere, in ogni caso, che raccontare gli Esteri è difficile, soprattutto in Italia, dove le notizie che non riguardano la sfera interna del nostro Paese non hanno grande rilievo, se non nei momenti drammatici. Ci vuole preparazione e voglia di scommettersi, Ilaria ne aveva da vendere. La sua fine dimostra che stava seguendo la pista giusta e che probabilmente aveva trovato le risposte, sui  traffici illeciti di rifiuti tossici e sui collegamenti con la camorra, con alcune navi italiane e con molto altro. Risposte sulle malformazioni della gente del luogo e sui fusti di materiale tossico che spuntavano tra le onde, all’improvviso,  e su una strada nel deserto, costruita coi fondi della cooperazione e con un segreto di morte da asfaltare; molte di quelle risposte erano contenute in quelle cassette, trafugate dalla borsa di Miran e poi riapparse con tagli e montaggi. L’ultima persona a incontrare la giornalista è stato il sultano di Bosaso, Abdullahi Mussa Bogor, sentito come persona informata dei fatti, e poi anche con accuse a carico, in seguito archiviate, che ha testimoniato che l’intervista era durata due ore, senza interruzioni. Al rientro, spariscono alcuni dei taccuini di Ilaria e nelle cassette di Miran Hrovatin, di quelle due ore di domande e risposte, restano solo 13 minuti in 35 minuti di girato.

A sentirla, quella intervista, sembra quasi che una beffa e un presagio si celino dietro le parole dell’intervistato, che si stupisce delle curiosità della giornalista, che riferendosi alla voglia di far luce sugli avvenimenti importanti lo rassicura: “Adesso è diverso in Italia, non è come 5-6 anni fa", garantendo che sulle verità scottanti cominciava a indagare; ”L'Italia è rimodernata?”, rispondeva il sultano ironico, quasi a dirle “Sei sicura?”. Eppure l’Italia l’ha smentita, dando torto alle certezze di una brava giornalista e insabbiando non solo le sue parole, le sue inchieste, ma anche la verità sulla sua stessa morte.
Questo ha fatto l’Italia in venti anni, delle perizie inutili e delle indagini senza senso, che hanno visto passare carte e ipotesi tra le mani di 5 magistrati, trovando un solo colpevole, Hashi Omar Hassan, un capro espiatorio probabilmente innocente, mentre i colpevoli veri restano impuniti.

Proprio in questi giorni, una petizione lanciata in rete chiede con la forza di 45mila firmatari, a gran voce, la verità sull’omicidio di Ilaria e Miran e sul traffico di armi e rifiuti, e la presidente della Camera Laura Boldrini ha accolto la richiesta di Greenpeace Italia per la desecretazione «di tutti i materiali acquisiti in oltre dieci anni sui traffici internazionali di rifiuti e sulle cosiddette “navi a perdere”». Vedremo se togliendo il vincolo del segreto di Stato su quei documenti salteranno fuori molte altre verità. Luciana, la mamma di Ilaria, ha dichiarato in questi giorni, in una intervista rilasciata al quotidiano La Stampa, che la verità se mai verrà fuori, lo farà quando i personaggi coinvolti moriranno, “Ma temo che morirò prima io – ha aggiunto, con amarezza – il che mi secca parecchio…” .

Ilaria e Miran non sono stati dimenticati, soprattutto dai colleghi, dagli amici, da chi crede che la parola obbligo meriti di essere seguita anche da rispetto e da verità, perché tutti devono cominciare ad assumersi il peso delle parole e soprattutto dei fatti, anche se spesso si cerca di confondere i secondi attraverso le prime. Ilaria non l’ha mai fatto, Miran nemmeno. Oggi è il giorno del ricordo del loro assassinio, abbiamo tutti bisogno di conoscere il giorno in cui verrà rivelata la verità sulla loro morte. Ne sentiamo il peso e  l’obbligo.