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"La strada di Ilaria" di Francesco Cavalli

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La strada di Ilaria
di Francesco Cavalli
Milieu edizioni, 2014

pp. 125

A Galkayo, già Rocca Littorio all'epoca del colonialismo italiano, il caldo d'agosto imperversa cingendola d'assedio nel cuore di quella zona desertica, che a tratti sembra liquefarsi nel biancore di un sole così incandescente da sembrare quasi irreale. Al mattino e nel tardo pomeriggio, quando l'aria torrida concede una tregua, talora con il conforto di una leggera brezza, la vita sembra riappropriarsi di una fugace parvenza di normalità. Abubakar e Hassan sono cugini e hanno entrambi dodici anni. Ogni giorno conducono al pascolo un piccolo gregge di pecore sui rilievi collinari che si estendono oltre i confini della città. Quando il sole non è così alto nel cielo da costringerli a trovare riparo all'ombra di un'acacia, raccolgono un po' di ghiaia con una pala, e la lanciano sull'asfalto per riempire la buca in mezzo alla strada poco prima che sopraggiunga l'automobile che Hassan ha avvistato sulla sommità della collina. Alla vista dei due ragazzi appostati sul ciglio della strada, il conducente si ferma e porge loro una manciata di scellini, per poi ripartire a tutta velocità in direzione Garowe, verso nord. Non appena l'auto si allontana, Abubakar e Hassan si preparano a "ricevere" la vettura successiva, ripetendo la stessa procedura. E poiché, soprattutto al mattino, transita un discreto numero di automobili su quella strada costruita dai cinesi negli anni Sessanta del secolo scorso, i due sanno bene che, prima del tramonto, avranno racimolato una discreta somma di denaro. C'è da dire che, a distanza di oltre un trentennio, il manto stradale regge piuttosto bene, se si eccettuano quelle poche decine di metri in cui si concentrano alcune buche "misteriosamente" destinate a riformarsi al passaggio di ogni automezzo. E di automezzi ne passano davvero tanti, soprattutto al mattino, con il loro carico giornaliero di cat giunto in aereo direttamente da Nairobi. Il cat, l'erba coltivata sugli altipiani etiopi e keniani, quella droga dei poveri che tanti somali masticano nel tentativo di arginare la fame, il sonno e la paura, deve essere consumata rigorosamente fresca, il che giustifica l'incessante processione di camion e automobili che sfilano ogni giorno lungo le strade del deserto, sfidando le peggiori insidie della guerra.
In quella torrida estate del 2000, Abubakar e Hassan sono due dodicenni che sognano di trasferirsi a Mogadiscio o - meglio ancora - a Nairobi se non addirittura in Libia, per cercare un'occasione di riscatto dalla totale assenza di prospettive che aleggia come uno spettro sopra Galkayo. E in un secondo tempo, con un po' di fortuna, potrebbero spingersi fino in Europa giacché, quando si vola con la fantasia, anche il braccio di mare che separa l'Africa da quella sorta di Terra Promessa non appare più come un ostacolo irto di insidie. Ancora non sanno che i loro sentieri stanno per dividersi, e che per moltissimi anni non si rivedranno più. La cittadina è in rivolta perché pare che a Gibuti i rappresentanti dei clan abbiano trovato un accordo per la pace, sancito dall'elezione di un presidente totalmente inviso ai "darod" locali, i quali minacciano di chiudere il passaggio verso sud. Perlomeno è questa la spiegazione sommaria con cui la madre di Abubakar giustifica in tono concitato la necessità di partire subito alla volta di Mogadiscio.

Hassan rimarrà invece imprigionato per diversi giorni, a causa dell'insurrezione che ha infiammato la cittadina. I due cugini si ritroveranno a distanza di anni nella prigione libica di Kufra,
entrambi venduti dalla polizia locale che a sua volta rivendeva ad altri trafficanti i migranti, in un gioco di compravendita al miglior offerente.
Non è rimasto quasi più nulla dei due pastorelli dodicenni che sognavano una vita migliore di quella toccata loro in sorte. I lunghi anni della guerra, che ha messo in ginocchio la Somalia, le fughe, gli arresti e i maltrattamenti hanno scavato un solco nelle loro anime martoriate da cicatrici rese indelebili dal reiterarsi di atroci sofferenze. E Aubakar, seppur fra mille traversie, riuscirà a sbarcare a Lampedusa e, successivamente, ad acquisire lo status di rifugiato. La vita gli ha concesso un dono insperato, e questo lo sa bene, soprattutto quando il pensiero corre alle persone conosciute durante il suo lungo viaggio attraverso l'Africa così come durante la detenzione nel carcere di Kufra. Ma quando il turbinio dei ricordi indugia per un attimo sui suoi compagni di traversata, non può frenare il pianto nel rievocare la vicenda di Sanwà. Fu scaraventato in mare da Ruggero Marino, il comandante del peschereccio su cui quel giovane migrante si era faticosamente issato; chiedeva aiuto dopo che il gommone, a bordo del quale stava compiendo la traversata insieme ad altre 60 persone nella speranza di raggiungere Lampedusa, era rimasto senza carburante. Stremato dalla fatica, Sanwà scompare inghiottito dal mare, esattamente come è accaduto ai compagni di traversata di Abubakar. Le loro urla disperate, mentre si sbracciano dal gommone che iniziava ad imbarcare acqua, dinanzi a un peschereccio che si allontana sempre più a causa di leggi assurde che trasformano l'accoglienza in reato, lo tormentano. Vogliono rammentare, a lui e a tutti noi, che molte di quelle imbarcazioni sono affondate in ossequio a queste leggi figlie di una bieca turpitudine.

Quella di Abubakr e Hassan è solo una delle vicende a metà strada fra realtà e fantasia narrate nel libro, quasi a voler tessere la trama di un romanzo ambientato in una Somalia storicamente legata a doppio filo con l'Italia attraverso una ridda di implicazioni spesso poco chiare. Come poco chiare risultano ancora, a vent'anni di distanza, le circostanze che hanno portato al duplice assassinio di Ilaria Alpi e del suo operatore Miran Hrovatin. Una strada invisibile sembra unire da numerosi decenni l'Italia alla Somalia, una strada spesso costellata di eventi bellici, corruzione, traffici di armi e rifiuti tossici. E' la stessa strada che ha voluto percorrere Ilaria Alpi nell'intento di indagare su un traffico di armi e rifiuti tossici in cui forse la stessa giornalista aveva ravvisato anche un coinvolgimento dell'esercito e di altre istituzioni italiane. Nel novembre del 1993 era stato ucciso, sempre in Somalia e sempre in circostanze misteriose, Vincenzo Li Causi, sottufficiale del SISMI nonché informatore di Ilaria Alpi sul traffico illecito di scorie tossiche in quella zona dell'Africa.
I rifiuti tossici, fra cui trovano spazio antiparassitari, bagni galvanici, acido nitrico e "resti di medicinali", sono trasportati all'interno di fusti per essere seppelliti in cambio di forniture d'armi o finanziamenti sempre a sfondo bellico.
Sul finire degli anni Ottanta del secolo scorso, il regime di Siad Barre entra in crisi, facendo sprofondare la Somalia in una dimensione di ingovernabilità che tuttora la dilania. Con simili presupposti, è facile intuire che questo Paese sia divenuto una facile preda di trafficanti senza scrupoli.
Francesco Cavalli, che è anche il Presidente del Premio Ilaria Alpi, tiene a sottolineare che
Sono molti gli indizi i quali lasciano immaginare che la giornalista del Tg3 e il suo operatore siano stati uccisi su preciso mandato, perché avevano scoperto un traffico di rifiuti tossici dal nostro Paese alla Somalia, nascosto sotto l'asfalto della strada Garowe-Bosaso. Tuttavia di indizi si tratta e dunque insufficienti a costituire una certezza. Sono note le risultanze della commissione parlamentare d'inchiesta: tre relazioni. Secondo quella di maggioranza, Ilaria e Miran si trovarono semplicemente all'ora sbagliata nel posto sbagliato, in una delle città più sbagliate, cioè pericolose, al mondo. Tragica sfortuna, ovvero un tentativo di rapina, o di sequestro a scopo di rapina, finito male.
Resta comunque il fatto, come ci ricorda l'autore, che Ilaria Alpi era una giovane giornalista venuta alla Rai in maniera trasparente, per concorso, per merito, che conosceva benissimo l'inglese, il francese e l'arabo. Era un'arabista, un'ottima conoscitrice del mondo vicino-orientale a cavallo tra Africa e Asia. La sua gavetta si era fatta prima di tutto sui libri, e poi all'estero contrariamente a ciò che avviene di solito nelle nostre redazioni. Non si limitava a fornire informazioni di prima mano, ma le mostrava anche dal luogo in cui avvenivano i fatti, esponendoli con cognizione di causa. Ilaria incarnava dunque anche un modello innovativo di fare giornalismo, e per questo la sua perdita appare ancora più incolmabile.
Ilaria e Miran erano in Somalia
per documentare il ritiro delle truppe italiane, la conclusione della missione Ibis. Il fallimento della forza multinazionale in Somalia.
Ciononostante, essendo al corrente di una nave sequestrata, una della flotta Shifco (navi donate dall'Italia di Bettino Craxi alla Somalia di Siad Barre), vuole recarsi nella regione che si affaccia nel golfo di Aden, dove la nave era stata sequestrata, dove era stata costruita la strada nel deserto. Intervista il sultano di Bosaso, il quale ammette che la nave era stata sequestrata dai suoi uomini. Ilaria lo incalza; vuole avere informazioni precise riguardo al carico delle navi di quella flotta; vuole avere conferma delle voci che ha raccolto riguardo al traffico di armi e al traffico dei rifiuti tossici, evidentemente sotterrati durante i lavori di costruzione della strada nel deserto che collega Garowe a Bosaso. Il sultano risponde in tono evasivo, ma le sue parole suonano come un chiaro avvertimento quando le dice che chiunque parli di quelle cose di solito muore o sparisce in qualche modo.

Domenica 20 marzo 1994, dopo essere rientrata a Mogadiscio insieme a Miran, Ilaria telefona al suo collega di Roma annunciando un servizio che scotta. Nessuno saprà mai di cosa si tratta. Si reca quindi all'hotel Hamana, oltrepassando la green line, la linea di sicurezza. Una volta uscita dall'albergo, risale in macchina sul sedile posteriore. Davanti, accanto all'autista, è seduto Miran. L'auto fa manovra per tornare da dove era venuta, ma una Land Rover, con a bordo un commando di uomini armati, le blocca la strada.
Gianni Minà è sul palco di Piazza San Giovanni, a Roma, dove migliaia di persone stanno per assistere al concerto organizzato in chiusura di una campagna elettorale che funge idealmente da spartiacque fra la Prima e la Seconda Repubblica. Nessuno immagina che, nel volgere di una settimana, Silvio Berlusconi prenderà le redini dell'Italia, tenendo banco per circa un ventennio.
La notizia dell'agguato di Mogadiscio è già trapelata dietro le quinte, e a Gianni Minà spetta il compito di darne l'annuncio alla folla che si è assiepata sotto il palco. Quasi sorretto da Piero Pelù, il conduttore riesce a malapena a pronunciare quelle parole che gelano gli astanti. Un silenzio quasi irreale da cui, d'un tratto, scaturisce un fragoroso applauso che trasuda commozione.
Da quel giorno, sono trascorsi 20 anni senza che la verità sia emersa e, soprattutto, che sia stata avvalorata da prove inconfutabili. E questo vale per l'assassinio di Ilaria Alpi e di Miran Hrovatin non meno che per altre vicende che si sono consumate in quegli stessi territori. Eppure si sanno molte cose: ad esempio, si sa che, fra il 1980 e il 1990, la cooperazione italiana in Somalia ha investito 5 miliardi di lire in opere destinate allo sviluppo, fra cui la strada Garowe-Bosaso e i pescherecci della società Shifco. Nel 1988, Mauro Rostagno è stato assassinato da un commando. Neppure in questo caso si conoscono i moventi del delitto, ma è risaputo che il giornalista denunciava gli intrecci fra mafia, massoneria deviata e politica corrotta. Subito dopo la sua morte, spariscono un'audiocassetta su cui aveva registrato i nomi di alcuni mafiosi e massoni, e una videocassetta che riprendeva l'atterraggio di aerei che trasportavano carichi "segreti".
Ilaria Alpi era stata minacciata di morte diversi giorni prima del tragico agguato di Mogadiscio. In questi vent'anni, le testimonianze potenzialmente cruciali e inconfutabili, e gli elementi probanti sono stati insabbiati dall'apparato della giustizia italiana, con motivazioni a dir poco pretestuose.
Ma, come sostiene Francesco Cavalli, facendosi portavoce anche dell'Associazione Ilaria Alpi, ciò che davvero conta è non tacere nella ricerca della verità, e per assicurare alla giustizia esecutori, mandanti e chi li ha coperti.

La strada di Ilaria esce oggi, in concomitanza con il ventesimo anniversario della morte della giornalista, a cui RAI 3 dedica una trasmissione che andrà in onda in prima serata.

Cristina Luisa Coronelli