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Conoscere quindi comprendere; comprendere quindi riconoscere: Ezio Raimondi

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Scrivere di Ezio Raimondi significa parlare di letteratura: non quella racchiusa nei manuali, o nelle aule (scolastiche e accademiche), o nei convegni. Significa, bensì, parlare della Letteratura, quella che ha carne, pelle, sangue, respiro. Quella che si sceglie, quella che totalizza, quella che complica, quella che dà un po’ più di senso al viaggio esistenziale e sapienziale. 
In questi giorni tanto si è scritto, tanti hanno scritto, di Raimondi, su Raimondi, quindi è inutile ripetere qui la sua biografia, la sua carriera, la sua (sterminata) bibliografia. 
Si dice che «muore giovane chi è caro agli dei». Non sempre, verrebbe da chiosare: Ezio Raimondi aveva quasi novanta anni, eppure era caro agli dei, o meglio a Dio. Era «uomo di fede, senza fronzoli», come ricorda Davide Rondoni. Era caro alla letteratura, perché egli aveva cara la letteratura, e l’aveva eletta a casa incrollabile della sua vita: «Ezio tiene i libri anche sotto i tavoli dei piedi, e non serve a niente che lo sgridi», raccontava la moglie. 
Si vuole, quindi, parlare di Raimondi lettore, di Raimondi attore senza maschera di quel «teatro dell’esistenza» che per lui era la cultura, deputata la cultura a esistenza vera, profonda. Quell’esistenza che vive fino alla radice dell’anima. Non si è mai aspettato miracoli, cose facili, soluzioni preconfezionate: da homo viator ha accettato il cammino, con tutte le complessità e responsabilità che esso implica. Ancora con Rondoni, si può affermare che Raimondi era, ed è, un «camminatore» della (e nella) letteratura. Per lui la vita era il «paragone delle parole», l’illusione «di un io che va alla ricerca continua di un noi, in una battaglia continua con la solitudine». Il Professore dialogava, conversava, inciampava nelle parole, scavandole fino a trarne il significato più vero e più profondo, e, al contempo, più discreto e pulito. Viveva la cultura come un incontro, o meglio, come una serie di incontri, di un io che si riconosce empaticamente in un altro: altro che poteva essergli di fronte sia fisicamente, sia tra le pagine di un libro. Non aveva paura di tirare fuori dalla carta stampata emozioni, personaggi, situazioni: li ammetteva alla corte della sua intelligenza, della sua sensibilità, della sua acribia. Che l’altro si chiamasse Manzoni, Baudelaire, Dante, o Andrea Battistini, Davide Rondoni, poco importava: l’importanza risiedeva nell’incontro. Alberto Savinio nella Vita di Enrico Ibsen asserisce (pp. 61-62): 
«Noi scriviamo di tanto in tanto anche delle biografie, per desiderio di compagnia: per farci un gruppo di amici; per aumentare il numero dei nostri figli… Dico bene: per aumentare il numero dei nostri figli. Nulla è tanto popolato quanto la nostra solitudine.»
Forse lo scopo di Raimondi lettore era proprio questo: leggere per farsi un gruppo di amici, per popolare la propria solitudine.
 «Il libro allora diventa una creatura che hai sempre a fianco e che porta nella tua vita i suoi affetti, le sue ragioni a interpellare i tuoi affetti, le tue ragioni», 
citando le sue stesse parole. Corrado Augias lo ha definito un «umanista»: un uomo che ha visto nella cultura un unicum panico, che ha ricercato un sapere, sempre perfettibile, sempre aperto, a trecentosessanta gradi, che ha inglobato tutti gli aspetti del reale nella sua sete di conoscenza: «rerum cognoscere causas», sempre, con tutti i mezzi, a tutti i costi. Un uomo che non ha mai accettato nel proprio vocabolario, nel proprio “lessico familiare” la parola fine. Perché la parvenza della fine, in realtà, nasconde sempre un nuovo inizio. «É bello vivere, perché vivere è cominciare, sempre, a ogni istante» (Cesare Pavese). E il bello della vita di Raimondi risiede nella consapevolezza che il punto di arrivo non esiste: Battistini ha riconosciuto nel magistero del Professore una «socratica educazione permanente». Educazione al rispetto, alla discrezione, all’eleganza, al tocco di penna delicato ma deciso, alla raffinatezza. «Io ero portato alla parola ostile e non gridata». 

Raimondi lettore ha saputo riconoscere nell’atto di leggere «l’incontro di due solitudini»: ha dettato un’etica per il lettore, un’etica della lettura. Si apre un libro per tante ragioni, non sempre razionalmente riconosciute, non sempre “nobili” o profonde. Ma nel momento in cui (parafrasando Dino Buzzati in una celebre intervista con Yves Panafieu) si va oltre pagina trenta allora si sceglie, o meglio si elegge quel libro a compagno per un tratto di cammino. Raimondi conosceva, dunque comprendeva; comprendeva, dunque riconosceva. Ri-creava ogni volta un rapporto con un autore, gli chiedeva compagnia: «la solitudine diventa paradossalmente socievolezza, entro un rapporto certo fragile come sono fragili tutti i rapporti intensi e non convenzionali, che aspirino a essere autentici. E qui forse, tra il lettore e lo scrittore, si producono lo sguardo, la coscienza, il faccia a faccia di una vera e propria relazione etica». Un’etica basata sul riconoscimento di un’esperienza che libera, perché mossa dalla libertà, dal riconoscimento totale dell’altro. Un’etica che non semplifica («Diffidate di ciò che sembra semplice», amava ripetere), ma attinge a piene mani dall’inquietudine feconda della complessità. E il caos, il multiforme, il pluri-prospettico creano perplessità, disagio, paure: elementi eletti da Raimondi a baricentro positivo di un dialogo, di una interpretazione che scruta e penetra, in punta di piedi. 
Da questi assiomi è facile capire perché il Professore intendesse la filologia come un dialogo continuo, come una conversazione costante, che coglie l’individuo nel suo essere un qui e un’ora irriducibile, unico e concreto: un «insieme di relazioni che non precede mai i fatti, ma si dà nei fatti». 
Questo filtro di complessità sfida la semplificazione dominante, perché abbraccia l’ossimoro, elevandolo a motore primo della curiosità, della meraviglia. Raimondi si era impegnato al “sapere, dunque esistere”, vedendo nella lettura la formatrice del «riconoscere la compresenza di verità differenti nella pluralità delle coscienze». Il Professore spalancava le porte della sua anima alla complessità dei casi (umani e letterari) in cui si imbatteva, accettandone la sconfinatezza, la non logica, la sfida. La letteratura diventava, per lui, la fucina per «trasformare la memoria in esperimento, in costruzione dell’uomo»: le parole mostravano la loro anima, si lasciavano incontrare, mostravano la loro carne, facevano sentire il loro respiro. Perché Raimondi ricercava l’uomo e l’umano nelle pagine di un libro, considerava il lettore non una mera astrazione metafisica da studiare e scandagliare, ma un uomo in carne e ossa, che portava tanto il suo infinitamente piccolo quanto il suo infinitamente grande nel tanto macrocosmo quanto microcosmo del libro. E viceversa: perché per il Professore, leggere significava condividere, conversare, comprendere: un’osmosi a distanza di secoli. Uno scambio di epoche, di culture, di civiltà, diverse, ma che si ritrovano in un cronotopo altro e alto. E quella che poteva apparire avidità di sapere nascondeva, sotto la superficie, una sete di ricerca mai finita, mai labirintica, mai fine a se stessa, mai semplice: Raimondi non era chiuso in se stesso, nella roccaforte delle sue convinzioni e delle sue intuizioni. Raimondi era energia vera allo stato puro, essere perfettibile, non perfetto. Un uomo, prima che Professore, che aveva capito che serve saper leggere, che anche l’essere lettore implica un’etica, una conoscenza, delle regole. Il suo metodo, se così può essere definito, fu sempre quello di una critica «approssimativa e provvisoria, in funzione di un fenomeno individuale». 

Privilegiando l’interpretazione individuale si evince come il dialogo proposto dal Professore sia un confronto solitario che apre al lettore le porte dell’officina dello scrittore, gli permette di sporcarsi le mani. Colui che legge è preso e portato per mano in un mondo altro, dove non si pretende la finitezza, ma solo la raffinatezza, la curiosità, il solletico della coscienza e della fantasia. Un dialogo «pluralistico e perciò antiautoritario». 
Raimondi era un uomo di prospettive, non di superfici, non di apparenze: aveva una relazione intima nella letteratura, con la letteratura, attraverso la letteratura. E questa ottica permette di comprendere a pieno la portata rivoluzionaria del suo insegnamento: non critica, ma metacritica; non libri, ma metalibri; non lettura, ma metalettura; non lettore, ma metalettore. Un’eredità di carattere interdisciplinare, intertestuale, dialogica: leggere non per analizzare, ma come «atto interpretativo», come accesso ad altro, come «esecuzione», come ri-creazione. 
L’opera diventa, nelle sue pagine e nelle sue parole, il fulcro di un «sistema dialogico, dinamico e aperto, di voci che rimandano ad altre voci»

Raimondi misurava il vero attraverso l’ironia, ma temeva l’ironico Roberto Longhi. Considerava Contini come colui che vedeva nel «rapporto tra razionale e irrazionale» la specificità della letteratura, ed entrambi cercarono di «razionalizzare l’irrazionalità», senza ricorrere a schemi, o dogmi, o etichette, ma affidandosi semplicemente alla voce sempre attuale, sempre parlante (per chi si presta all’ascolto) dei testi. 
I testi: quegli archetipi sempre attuali e sempre parlanti, voci di un’umanità che ha qualcosa da dire, che può insegnare, che può prestarsi al confronto, nonostante la lontananza temporale. I testi come il racconto di un’esperienza di un io tutto umano, immerso nell’umano. «Studiare un personaggio era tentare di strapparne il mistero che noi chiamiamo anima». Per il Professore ogni personaggio, anche il “tinca”, ha un’anima, che può spalancare le proprie porte, che può mostrare spiragli di diversità, e, quindi, da accogliere totalmente, nella più completa libertà. Il libro, per lui, si configurava come un cronotopo a sé: come uno spazio e un tempo di conversazione senza maschere, in cui il tu usciva dalla pagina e si sedeva accanto al suo lettore. Ogni uomo, in fondo, porta fuori il libro dalle pagine, con tutte le sue istanze, con tutte le sue complessità, e gli permette di abitare nel reale, nel quotidiano. Ogni lettore, in fondo, addomestica il libro, l’autore, il personaggio. 
«Il mio rapporto con i libri è fatto anche di alleanza, di desideri, di momenti sofferti e di dubbi, un rapporto che mi avvicina a una totalità imperfetta, un atto di amicizia. Anche nella letteratura quel che conta è la nozione di amicizia, perché la letteratura tutela l’integrità dell’uomo, come di un amico che accettiamo così com’è». 
Proprio questo accettare senza preconcetti, senza filtri, senza ideologie ha permesso a Raimondi di elevarsi alla statura di Maestro. Un maestro relativo, un maestro imperfetto, un maestro provvisorio, e proprio per questo maestro vero: il vero uomo, il vero insegnante non è colui che “appiccica” un’etichetta su un qualcosa che sfugge, ma è colui che lascia aperta la domanda, è colui che invece di dare soluzioni aleatorie ed effimere genera altre domande. Un cammino senza meta in apparenza: ma a ben guardare, forse, il traguardo è nel bagaglio che si va costruendo mano mano, passo dopo passo, lettura dopo lettura. Un percorso disordinato (parlando dei suoi libri, Raimondi asseriva: «mi sono affidato sempre a misure relative, con mutamenti di posti che rendevano sempre più aleatoria la possibilità di seguirli e ritrovarli»), ma con un filo conduttore sempre chiaro e visibile. «Considerate la vostra semenza:/ fatti non foste a viver come bruti,/ ma per seguir virtute e canoscenza».

E la conoscenza che Raimondi lascia in eredità è endofasica, è inquieta, è viandante, è in fieri, è perfettibile, è cubica (e non circolare): e forse, in virtù di queste considerazioni, è la vera conoscenza, ovvero «la speranza contesa».