in

#vivasheherazade - CritiCINEMA - Il Salotto: Il cinema femminile di Alina Marazzi

- -


Lo sguardo femminile delle donne, la loro voce che – dai documenti storici – si fa immagine e arriva allo schermo: questi i temi dei docufilm di Alina Marazzi, regista  di Un’ora sola di vorrei (2002), Vogliamo anche le rose (2007) e Tutto parla di te (2012).
Dietro ognuno di questi lavori c’è un preciso studio archivistico ben rintracciabile nelle pellicole della Marazzi, plasmate su diari, foto e collage di registrazioni. A volte sono ricordi personali, come nel caso di Un’ora sola di vorrei, che ripercorre la vita e il dolore della madre della regista, scomparsa quando lei aveva sette anni, attraverso filmini di famiglia e pagine dei diari. Altre volte le immagini vissute si intrecciano alle animazioni, come in Vogliamo anche le rose e Tutto parla di te. Il primo, una narrazione sui movimenti femministi italiani degli anni ’70; il secondo, una riflessione sul tema della depressione post-partum. E in tutti e tre domina la prospettiva femminile, gli sguardi e le voci delle donne che formano un coro, e che ci raccontano la nostra storia attraverso il particolare, lo scritto di una pagina intima o una foto in bianco e nero. Non solo Anita, Teresa, Emma, ma tutte voi e tutte noi. Tutto parla di voi, come propone il progetto mutuato dal titolo del film della regista milanese dedicato alle mamme e alla condivisione della maternità (http://tuttoparladivoi.ilfattoquotidiano.it/).
Un fotogramma di Un'ora sola ti vorrei

In questi giorni la Marazzi è Visiting Fellow alla University of Warwick, dove il dipartimento di italianistica ha organizzato un interessante ciclo di seminari e proiezioni che vede la regista e i suoi film al centro di un’ampia discussione sullo sguardo femminile. L’intervista che segue è frutto di una piacevole chiacchierata che ho avuto modo di fare con Alina Marazzi in terra inglese.



La prospettiva femminile è la cifra dei tuoi film. Ma cosa ci dici della prospettiva femminista? È consapevolmente presente nel tuo lavoro?
Sì, io parlo di donne consapevolmente e con impegno. Questa consapevolezza  è nata in me a partire dalla riflessione dalle femministe della Libreria delle donne di Milano, che mi hanno restituito una visione femminista di Un’ora sola ti vorrei. Femminista sia per i contenuti che per lo stile, data la direzione antiepica del film, l’esternazione della soggettività. Non è un caso che Vogliamo anche le rose sia il passo successivo: è una sorta di follow up, che risponde a un desiderio di incontrare le fonti e di riconnettermi io in primis con quegli eventi, anche per capire più di me. L’idea era di avere un contatto diretto con le donne, per questo tutto il film è costruito a partire dai documenti. Ma la soggettività è importante negli anni Settanta, quindi dovevo rispettarlo se volevo fare un film su quegli anni. Tutta la scoperta del femminismo parte dall’idea che il personale è politico, quindi non è strano che io mi occupi di una collettività femminile dando spazio a una voce, a una persona (ad esempio tramite i diari). E senza la mediazione di un narratore, di un’introduzione storica: a parlare sono le voci, le parole delle donne. Per sempre (docufilm del 2005 che indaga la clausura femminile e la vita di una comunità monastica. Ndr) e Tutto parla di te fanno parte dello stesso percorso. Sono sempre questioni femminili abbastanza complicate: suicidio, depressione, clausura, movimenti femministi… Ma c’è bisogno di parlarne e io voglio occupare in questo senso lo spazio che mi è dato.
 
Secondo te lo sguardo delle donne è “strutturalmente” diverso?
Vuoi dire “biologicamente”...beh, bella questione!

Già! Io me lo sono chiesta tante volte cosa sia la scrittura femminile e se esista un codice, o  uno scarto, che ci faccia capire se un testo sia scritto da un uomo o da una donna. E per il testo visivo, per le immagini? Cosa vuol dire fare cinema femminile?
Non è sufficiente essere donna per fare un cinema femminile secondo me. Il cinema femminile può correre il rischio di essere un ghetto, un calderone dove si confinano tutte insieme Lina Wertmüller e...Alina Marazzi. Boh! Che senso ha? Ma è anche vero che ci sono delle registe che si interrogano sullo stile. Anche io cerco di fare col cinema quello che altre donne hanno fatto con la scrittura.

E lo sguardo dell’uomo? È ancora dietro la videocamera a fotografare una donna-oggetto, come in Vogliamo anche le rose? O è uno sguardo che comprende la differenza e che può assumersi nuovi ruoli (penso ad esempio alla sfera della paternità, che tuttavia manca in Tutto parla di te)?
Quello che è cambiato ha beneficiato anche l’uomo. Si è sentito più libero, anche di guardare alla sua soggettività, di essere introspettivo. Sì, io penso che le cose siano cambiate.

Hai qualche progetto in cantiere?
Sì, sto lavorando su dei video che saranno proiettati a Roma in occasione dei novant’ anni dell’Istituto Luce. Un progetto a cui sono stati chiamati a far parte altri videomaker, e che si concluderà con un evento al Vittoriano a giugno.

Le parole di Alina Marazzi, ma soprattutto il suo lavoro, hanno avuto – almeno in chi scrive – il benefico effetto di essere un esempio illuminante. E dato che il discorso femminista fa della soggettività il nucleo della conoscenza, l’esperienza di questo dialogo – e dei seminari, e delle proiezioni alla University of Warwick – mi conduce ad alcune riflessioni e a molte domande. Tutte incentrate proprio sul valore stesso della soggettività, che la Marazzi usa  – con coraggio – per raccontare non solo la sua storia di donna, ma il femminile e le sue accezioni. Ho anche io il coraggio di mettere la mia soggettività in relazione dialogica col mio lavoro e con la mia scrittura (e le mie letture)? Saper esternare la propria interiorità si apprende autonomamente? Oppure necessita  di una ricerca e uno studio che ci aiutino a saper discernere – nella quotidiana eccedenza di selfie e di luccicanti individualità all'arrembaggio mediatico – i veri mezzi che rendono il mio io uno strumento di conoscenza? I lavori della Marazzi sono uno stimolo per chi crede che la strada degna di essere intrapresa sia la seconda: si costruiscono intorno a un soggetto che, nella sua centralità, non è mai egocentrico, mai banale, mai melenso. È un io che tende all’altro, e che mette la propria esperienza a servizio di una conoscenza collettiva. Come nelle pratiche di autocoscienza, i film di Alina Marazzi sono una bellissima e poetica angolatura da cui iniziare a osservarsi, osservando gli sguardi delle donne. Alcuni, quantomeno, perché le prospettive femminili che si possono tessere sono infinite come la tela di Penelope, e da dire c’è ancora tanto.




Serena Alessi

Foto per gentil concessione dell'intervistata