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Critica Libera: la cronaca di Marko

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Sono nato il 9 ottobre. Lo so, vivevate bene anche senza saperlo. Però, attenzione, è l’anniversario del Vajont, della fucilazione del Che e della caduta del primo governo Prodi. È già una data più interessante? Fate voi. Per ora è un primo indizio che servirà più avanti. Un giorno mi venne voglia di scoprire come sono fatti realmente i Balcani e con un paio di amici imboccammo l’autostrada Zagabria-Belgrado. All’epoca non esistevano relazioni diplomatiche fra i due paesi ed era l’una di un pomeriggio estivo. Una cosa allucinante. Non passava una macchina. Letteralmente una.
Ogni tanto la carreggiata diventava a una corsia perché o quella di marcia o quella di sorpasso - o quelle opposte - era chiusa. Dai e dai capimmo il motivo: sotto l’asfalto interdetto c’erano ancora gli ordigni retaggio della guerra e sai com’è… a fare BUM neanche te ne accorgi. Fummo perfino fortunati perché i croati usano l’alfabeto latino e i cartelli di divieto di transito, sorpasso, marcia, compreso “pericolo mine”, erano intuibili. Se facevamo il viaggio al contrario, con quel cirillico a confondere le idee, non lo avremmo colto tanto alla svelta il perché di quell’autostrada a zig zag.

Al confine i croati erano vestiti come ustascia ma non si mostrarono particolarmente sgradevoli. Quando lessero il mio passaporto tirarono fuori la filastrocca sul nome che loro declinano con la K: Marko. E non la smettevano. Marko di qui, Marko di là e tutti a dirmi: «Hrvatska name! Hrvatska name!». Croato un paio di scatole… ma non mi misi a ragionare sull’origine latina e sui grandi Marco italici: Cicerone, Porcio Catone, Marco Antonio, Marco Aurelio. Chissà come reagivano a contraddirli, magari mostravano subito la versione Pavelić e non mi andava.


Comunque a pochi chilometri di distanza ecco il cuscinetto delle Nazioni Unite, lì davvero pareva il fronte. Se non avessero avuto in capo i famosi caschi blu c’era da farsela addosso tanto era lo schieramento di forze. Prima intimarono di rallentare poi mostrarono la paletta che ci dirottò verso una specie di svincolo tutto buche. Da quello dovevamo passare: ed ecco l’addetto al controllo, un inglese di Wolverhampton, me lo ricordo benissimo. Praticamente ci disse: «ma dove cazzo state andando?». «Belgrado». «Crazy». Avanti Savoia.

Ora toccava ai serbi, additati al mondo come le belve sanguinarie di Srebrenica. Erano cinque civili e una ventina di militari che ronzavano svogliati dentro e attorno a una baracca malmessa dove le cose che meglio spiccavano erano bottiglie di vodka semivuote, o semipiene, è come la storia del bicchiere, e un poster con una tigre. E qui si alzò la pressione. L’affetto di questi ragazzotti andava a Zeljko Raznatovic: sì, Arkan, il famigerato capo delle milizie paramilitari serbe. Le “tigri”, appunto. C’erano alcuni camion fermi in attesa di chissà che… entrare in Croazia lo escludo, sbucavano dal finestrino braccia tatuate di croci ortodosse e gambe di chi era sbracato e provava a dormire. Un militare parlava, si fa per dire, l’italiano. Cioè, era quasi commovente mentre si sforzava di ricordarmi che era stato a Venezia nel… boh: «Italia… sunce», che vuol dire “sole”, «Italia… Juventus» e mi restò simpaticissimo.
Ora dice «mafia», me lo sento, me lo sento… invece nulla del genere anche perché arrivò un tizio in mimetica e pensammo: o bene bene o male male. «Srećan put». Che vuol dire: “buon viaggio”. Tempo trascorso da quando avevamo visto i primi check-point croati: due ore. La fame ci divorava. Pensai che avrei tolto il boccone dalle fauci di una tigre. Riflettendo un attimo, meglio della Malesia che di Arkan.

Vi ho annoiato con questa storia perché quando viaggio mi porto sempre dietro libri che riescano a calarmi meglio nei luoghi. Così, ricercando titoli prettamente balcanici mi ero imbattuto ne La cronaca di Travnik” di Ivo Andric, diplomatico e soprattutto premio Nobel per la letteratura. Pure lui, nato nel 1892, finiva gli anni il 9 ottobre. Il cerchio si chiude.
Qualche scampolo di trama: Impero Ottomano al canto del cigno. Anzi, a Travnik, capoluogo della Bosnia, il potere vero è esercitato dai bey. Il visir, il rappresentante del sultano di Istanbul, è il due di briscola. A emettere fumo e sentenze dai loro sofà, sono i capi delle famiglie e delle tribù, in particolare, la voce più influente è quella del bey anziano. Stavolta deve pronunciarsi su una cosa che la diffidente gente bosniaca non digerisce: l’arrivo del console inviato da Napoleone. L’impero nato dalla Rivoluzione Francese sembra inarrestabile nelle sue conquiste e nell’allargare le sfere di influenza. Così, ecco l’apertura della sede diplomatica nel cuore dei Balcani. A metà strada tra Istanbul e Vienna. Mica fesso il Bonaparte. Passa un po’ di tempo e arriva la risposta degli austriaci: un secondo console. I due si contenderanno la benevolenza dei visir che nel frattempo il sultano cambia secondo i suoi capricci finché la Restaurazione, celebrata proprio a Vienna, non rimescola le carte degli equilibri politici europei e da Travnik spariscono consoli, ambasciatori e mogli al seguito. Il bello però è che la gente comune rimane estranea a questi giochi. Mentre le potenze sono convinte di fare e disfare i destini del continente, nulla smuove i chiusi bosniaci che continuano a seguire le loro vite, da secoli contrassegnate dall’odio verso gli infedeli serbi, guarda caso, mentre gli unici a mantenere prestigio e autorevolezza sono i bey, distesi, ieratici, indifferenti a dispetto della presunta storia. La storia vera, da quelle parti, la fanno loro.

Andric ha ambientato la vicenda a inizio Ottocento. Un’epoca scelta tanto per rendere l’idea di che lucertolaio siano i Balcani. Quando nella notte belgradese – ah, a proposito, Zagabria è bella, asburgica, Belgrado meno ma è in uno spettacolare punto di confluenza tra Sava e Danubio – chiusi il romanzo, mi chiesi: non leggono libri i consiglieri di ministri, presidenti e cancellieri? Fatelo voi, capirete qualcosa in più sul perché nei dintorni di Travnik scoppiò il finimondo.

Dove buoni e cattivi non sono assolutamente individuabili e le sfumature sono infinite, perché infinite sono le etnie, i confini, le dispute, le rivendicazioni e le tombe. Oppure andate a darci un’occhiata. Oggi la Croazia è nella UE, la Serbia sta trattando per entrarvi, l’autostrada si percorre facilmente e il conflitto latente che ha insanguinato queste lande dall’epoca dei pirati illiri si è spostato molto più a sud, tra Serbia e Kosovo. Come dite: ’sta Serbia però è sempre nel mezzo? Non che voglia giustificare le atrocità in Croazia e Bosnia ma che cosa devono fare i serbi se la geografia li ha messi, nella penisola in questione, esattamente nel mezzo? Chiaro che appena si muove tutto il resto attorno, sono schiaffi e spallate. E a schiaffi e spallate, si sa, ognuno reagisce a seconda del carattere.

Marco Caneschi




Le foto che vedete sono state scattate tra Zagabria, Belgrado e Vukovar - ringraziamo gli amici fotografi che ce le hanno messe a disposizione: Alessia Minieri, Federico Rano, Benedetto Conte, Maikel Brok e Francesca Bigi.

Le foto erano così belle che abbiamo pensato di caricarle tutte in uno slideshow: 

CLetteraria's ZagabriaBelgrado album on Photobucket