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La vita benevola o crudele. Comunque indifferente

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Troppa felicità
(Too much happiness)
di Alice Munro
Einaudi, 2011 (2009)

pp. 327


Chiudi l’ultima pagina e sospetti che questo della Munro sia un titolo fuorviante. Poi vai oltre e trovi i ringraziamenti. Così troppa felicità non è tanto il sentimento prevalente di questa raccolta di racconti ma il titolo dell’ultimo. Dedicato a Sofia Kovalevskaja, matematica e romanziera di cui la Munro, così dice, si incuriosì immediatamente a causa della compresenza, nella stessa persona, di due discipline in apparenza antitetiche. Che riflettono il millenario confronto numeri-parole. «Il mio racconto si concentra unicamente sui giorni che precedettero la morte di Sofia, con alcune reminescenze del suo passato». Alla faccia della felicità.

Eppure è proprio in punto di morte che Sofia pronuncia la breve frase utilizzata nei titoli. Frutto di uno stato di delirio causato dalla malattia? Della visione della figlia Fufu al proprio capezzale e il senso, dunque, di avere lasciato una traccia significativa nel mondo? Proviamo a prendere in esame, dell’ultimo Premio Nobel per la letteratura, sia il sentimento sia il gioco narrativo, le reminescenze del passato che si accavallano, quasi arrancando, con il presente.

C’è poco amore in questi racconti. Giusto una fiammata iniziale, contraddetta dalla pazzia dell’uomo che compie un gesto mostruoso in assenza della moglie. O meglio: i protagonisti sono dei sopravvissuti alla fine dell’amore, un amore che si è frantumato al cospetto dell’orrore, di un trauma, di una violenza. Ma la Munro non concede molto allo spettacolo, la sua bravura sta nel mostrare non tanto i particolari diretti di certi duri accadimenti quanto il segreto attorno a cui ruotano, il granello iniziale sopra il quale si è sedimentata la stalagmite della degenerazione, cresciuta lenta ma costante sul pavimento dell’esistenza.
Ecco allora l’efficacia del continuo balbettare tra presente e passato: serve per riannodare i fili, maturare consapevolezza, sostenere una trama ma soprattutto lasciare in sospeso. Terminata ogni storia resta infatti una sorta di disagio nel lettore che sente, percepisce, qualcosa di inconcluso. Come la vita stessa, indifferente, benevola o crudele senza disegno.
Se l’esistenza si barcamena sopra questo piano oscillante, è evidente che gesti compiuti con le migliori intenzioni possono portare a conseguenze nefaste, la crudeltà può svoltare in senso positivo e il dramma di qualcuno essere allo stesso tempo, in modo involontario, la felicità di qualcun altro. Insomma, nulla è definitivo, se non lo è l’amore che frana come una rupe fangosa sotto il diluvio, perché deve esserlo il dolore?

Sono donne, perlopiù, le protagoniste: famiglie andate a pezzi, rapporti complicati, figli fuggiti verso nuove vite, il passato che schiaccia, bambine che dispensano crudeltà gratuite verso compagne più deboli. Fino alla Sofia Kovalevskaja, costretta a raggiungere Stoccolma, dove ha ricevuto un incarico di insegnante universitaria, attraverso un ardito viaggio. Questo perché un misterioso tedesco che si qualifica medico le ha parlato di un’epidemia di vaiolo a Copenaghen che altri smentiscono.
La Munro si pone, e vuole porci, in una posizione di accettazione del destino. Ma se è vero che i suoi personaggi parlano con penosa rassegnazione, oltre le ferite aperte e quelle rimarginate c’è un baluardo: la felicità, per la quale non ci sono ricette. Basta solo desiderarla e non importa che quella sognata sia perfino troppa. I sogni, a differenza di noi uomini, non sono fatti di carne o di polvere.