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Il mistero più buffo siamo noi italiani

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Il paese dei misteri buffi
di Dario Fo e Giuseppina Manin

Guanda, 2012
pp. 208


Il 1969 è stato l’anno della svolta per il nostro paese. Che uno dice: ma non era il ’68? No, è stato il maledetto 1969, l’anno della strage di Piazza Fontana. Il 12 dicembre. Pensare che i nostri vicini francesi potevano scherzare sopra questo numero e metterlo in bocca a uno sciupa-femmine come Serge Gainsbourg che cantava malizioso: Soixant’neuf Année Erotique. A Milano esplodeva invece una bomba. Alla Banca nazionale dell’agricoltura. Poi veniva delineato in chissà quali stanze lo schema dei depistaggi, delle coperture e dei falsi colpevoli. Per un ordigno in Lombardia, il relativo processo era spostato a Catanzaro, tanto per dirne una. Insomma: la madre di tutti i misteri e affari riservati.

Nel 1969, alla luce del sole, in un’aula dell’Università Statale di Milano, succedeva un’altra cosa, molto più edificante: Dario Fo portava in scena per la prima volta “Mistero Buffo” nato per irridere i santi e i fanti secondo lo stile delle rappresentazioni medievali. Una rivoluzione copernicana della storia e del linguaggio teatrale anche perché riproponeva la figura del giullare, l’affabulatore che rallegrava festini, nozze, veglie… il buffone che in apparenza faceva lo scemo ma che in realtà leggeva la storia secondo lo sguardo dei dimenticati.
Ne “Il paese dei misteri buffi”, questi due accadimenti così diversi per origine e qualità, una strage infame e l’esaltazione del cantore e del suo strumento di espressione, la giullarata, convergono e si riattualizzano su una realtà nazionale dal 1994 dominata dalla figura di Silvio Berlusconi.
Siccome da quel 12 dicembre 1969, come afferma lo stesso Fo, «Misteri tanti. Buffi pochissimi. Risolti nessuno», le giullarate si moltiplicano fino a 26 e il mattatore è l’uomo di Arcore che, fra inspiegabili sparizioni, ricomparse inattese, comportamenti ambigui dei suoi fedelissimi, discese agli inferi al cospetto di Minosse e periodi di detenzione carceraria, ha modo di parlare dei lati oscuri che circondano la sua figura e d’intrecciarli con quelli italici che o lo lambiscono direttamente o coinvolgono altri figuri con cui è stato colluso. E transitando all’inferno di figuri se ne incontrano: da Andreotti a Luigi Verzè, senza una rigorosa sequenza logica o cronologica. Una sarabanda di storie tragiche, dove la giullarata, dunque la satira feroce, cerca di offrire uno spaccato di verità fra tante menzogne.

L’intento è lodevole, molto interessante è il quadro logistico e strategico che emerge sull’agguato alla scorta di Aldo Moro che si concluse con il rapimento dello statista democristiano, tuttavia si esce dalla lettura del libro come se qualcuno ti avesse costretto a indossare una giacca stretta a una serata di gala compromettendo agilità e scioltezza abituali. Il Silvio narratore è accattivante, una sorta di contrappasso dantesco - non a caso Minosse e non a caso gli inferi - dove il nipote, se non il figlio, del clima che alimentò quei misteri è costretto a raccontarli o a fare da tramite per il loro svelamento. Ma c’è veramente troppo, compresi due incontri sorprendenti fra Berlusconi e Machiavelli e Galileo, in un quadro di improvvise aggiunte e divagazioni che pare forzato.
Ci troviamo dinanzi a Piazza Fontana, alla P2, ai crack del Banco ambrosiano e del San Raffaele, al caso Moro e al caffè al cianuro somministrato a Sindona, al giudice Ambrosoli e a Calvi impiccato sotto un ponte di Londra, a Dell’Utri e Mangano, ovviamente a Gelli, ai primi passi della Edilnord di Berlusconi e ai suoi consensi bulgari, guarda caso, in Sicilia, alla collusione fra Stato e mafia, allo smaltimento dei rifiuti a Napoli e al caos che travolge il mondo moderno, vittima della cattiva gestione delle nuove tecnologie. Temi importanti, per carità, qui stiamo veramente scommettendo sull’orgoglio e la dignità di un popolo e di una parola, italiano, che a pronunciarla all’estero è diventato imbarazzante. Stiamo giocando una partita con la storia e la democrazia, infangata e umiliata da azioni terroristiche e bombe criminali coperte se non innescate da centri di potere dentro le istituzioni.

Non sto neppure discutendo il pretesto narrativo, la teatralità e il gusto dello sberleffo colto tanto cari a Dario Fo, ma… come dire… la valigia è stipata, neanche riempita, e la zip non riesce a chiuderla. Peraltro, se doveva essere un pentolone con un gulasch di misteri e verità giullaresche, non capisco perché sia rimasto fuori un ingrediente come la strage alla stazione di Bologna.
Questo è quanto ma non voglio essere pretenzioso: se come italiani, il vero e unico mistero buffo, abbiamo ingoiato veramente ogni cosa, dalla Dc a Berlusconi con il marcio che hanno rimestato sotto, possiamo sopportare da lettori una prova non del tutto riuscita perfino di un Nobel.