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#CriticaLibera - Specchio, specchio delle mie brame...

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Chi ha detto che il diarista si mira e rimira volentieri?


«Miroir, reflet, regard» sono parole-chiave per gli intimisti francesi quando si rapportano con il proprio io, e anche in Italia la situazione non è diversa. Ma è proprio vero che il diarista novecentesco è un Narciso? La presente carrellata attraverso il secolo breve porterà luce su aspetti poco indagati. Prezzolini, nel dedicarlo alla moglie, definisce il diario «il suo specchio», con «inezie e pensieri».[1] Per focalizzare la dicotomia interiore, lo specchio è uno strumento che più volte torna nel diario, talvolta mettendo in luce quanto la verità è relativa: «uno specchio nel quale prima di tutto vediamo il nostro volto. Così per ciascuno di noi la verità ha un volto diverso», scrive Ojetti nel 1924.[2] Allo stesso modo, cercarsi nel riflesso di una vetrina può suscitare effetti inaspettati, come il misconoscimento, per Cassola:
Avrei voluto che i miei lineamenti si cancellassero. Ricordo ancora la gioia di quando, camminando in fretta e dando appena un’occhiata a una vetrina, questa mi rimandava l’immagine di uno sconosciuto. Quello sconosciuto ero io. Cosa c’era di più bello che non somigliare più a se stessi?[3]
Per altri osservarsi è un’esigenza quotidiana, «per conservare pieno e reale senso di sé» ritrovando le proprie sembianze, e Morselli se ne accorge perché privato per una settimana di specchio.[4] Specchio come rilevamento e riconferma di sé, o specchio come mistificazione di un’immagine riflessa, che può portare ulteriore confusione in una visione appannata della realtà, come in una lettera-confessione di De Libero del 1941: 
«In tanti anni di confessioni a me stesso ora m’avvedo di aver solamente gridato, strepitato e pianto. Mi pareva di chiarire la mia immagine dentro lo specchio, invece il mio fiato l’ha sempre di più velata e sospinta nel fondo, irriconoscibile ormai»,[5] 
o confortare nella lotta contro la solitudine (scriveva Pavese il 6 novembre 1938: «Passavo la sera seduto davanti allo specchio per tenermi compagnia...»).[6] Talvolta «strumento di metafisica paura»,[7] riflette infatti la «paura di rimaner soli» rapportata alla propria immagine, come nei Taccuini di Barilli, paura atavica e connaturata all’uomo di qualunque età:
Tutti gli specchi sono pieni di imbecilli.Gli imbecilli hanno paura di rimaner soli.Eppure sono tanti. Tutti i giovani sono imbecilli [La jounesse est une manière d’imbécillité – est une régle infallible]. Tutti i giovani sono imbecilli.Quelli maturi sono ancora imbecilli – continuano ad esserlo.I vecchi non tutti sono imbecilli ma diminuiscono man mano costoro, gli ultimi che non sono.[8]
Inoltre, lo specchio è una similitudine per il mimetismo scrittorio, quando il diarista scrive «sotto dettatura, le parole passano come su uno specchio, qualche volta non hanno senso. Non è colpa sua»,[9] con chiara deresponsabilizzazione per i contenuti. 
D’altra parte, il riflesso moltiplicato genera scompenso: 
«Gli specchi. Nella mia stanza ce ne sono quattro o cinque, specchiere importanti. Quando sono a letto mi sembra di aver un’intera famiglia di me stessi: è troppo, e spengo subito il lume».[10] 
È uno specchio inclinato quello che compare nel titolo dei diari di Soldati, raccolti da Mondadori nel 1975, a rimarcare il filtro della soggettività nella visione del reale: infatti, le tante annotazioni di cronaca e gli incontri non sono mai nudi, ma commentati.
Inoltre, lo specchio torna più volte nei diari Sanminiatelli: in Mi dico addio è strumento per accorgersi, accidentalmente, della propria estraneità, riconoscendo in uno sguardo distratto «l’antipatia di una forma allo specchio prima di riconoscere in quella figura noi stessi».[11] Nel 1956, il «ribrezzo» provoca il rifiuto della propria immagine, mentre tempo prima dava la «voluttà di trasformarsi in quell’aspetto di se stesso che gli faceva orrore», per provare il «piacere dell’umiliazione».[12] Il Leitmotiv torna anche nell’explicit del 20 dicembre 1958, che racchiude il titolo dell’opera: «Mi guardo allo specchio come uno che si dice addio».[13] Nel diario successivo, Il permesso di vivere, lo specchio è testimone dello scollamento tra nome e identità:
18 Dicembre [1960]. Davanti allo specchio mi chiamo per nome e non sono più io. Il mio nome (questa maniera di essere designato), appartiene a tutti coloro che vogliono pronunzialo. Campeggia rigido, pesante come una condanna. La mia immagine allo specchio evoca soltanto un nome.[14]

Via alternativa allo «specchio insaziabile, che non si cuopre mai, non si annera mai, mai è vuoto, anche quando pare deserto e tutt’ombra»,[15] è il sogno, cosa di cui Morselli è un grande sostenitore: «Io mi sono conosciuto in sogno», scrive lapidariamente il 3 dicembre del 1943, e nei quaderni ritornano riflessioni a partire dall’Interpretazione dei sogni freudiana (ad esempio in data 9 marzo 1969).[16] Cassola, invece, esprime il proprio «disprezzo» per i sogni, sia a occhi aperti sia a occhi chiusi: «Fortunatamente li dimentico. Non si tratta nemmeno di fortuna, è che la mia memoria s’è abituata a eliminare in fretta i sogni, come ricordi senza importanza».[17] Parte dell’odio per i sogni è imputato al fatto che per lo scrittore dipendono strettamente dai pensieri e dalle impressioni diurne, di cui sono «prolungamento» («I miei sogni, insomma, sono un doppione bislacco e balordo di ciò che penso e provo da sveglio. Anche da sveglio, purtroppo, ho la tendenza a perdermi in pensieri inutili, in oziose fantasticherie»).[18] Quindi, non solo sono inutili alla decifrazione della propria interiorità, ma attutiscono la percezione delle emozioni, qui «attenuate» e «illanguidite». Se l’oblio dei sogni è desiderato, al contrario Cassola lotta contro la dimenticanza delle impressioni della veglia: «come avrei voluto stiparle tutte nella memoria! S’intende, quelle importanti, contrattistinte da un timbro inconfondibile», sebbene il «prezioso patrimonio d’immagini» sia soggetto alla corrosione del tempo.[19]

Distorte, irridenti, talvolta inautentiche o storte, altre ancora piuttosto fedeli e soggettive: le immagini degli specchi e le distorsioni oniriche riflettono il chiaroscuro novecentesco che cerca l'io anche quando la visione è offuscata, e spesso non può che ritrarlo da prospettive oblique e ombrose. 


GMGhioni



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*tutte le immagini rielaborano foto dell'installazione "Passi" di Alfredo Pirri; sono state tutte quante scattate  (previa autorizzazione del personale della galleria) alla Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma, dove l'installazione era in mostra semipermanente nel 2011.

[1] G. Prezzolini, Diario 1900-1941, Milano, Rusconi, 1978, 204. Altrove, tuttavia, lo specchio è visto da Prezzolini con odio: «22 febbraio 1905. Sono veramente lo spettatore di me stesso. La vita è come un teatro, con una quantità di personaggi, ma uno di questi sempre in scena. Il mio compagno indivisibile. Mi par d’essere uno specchio sul quale hanno inciso la mia faccia. Passano sempre nuovi fantasmi, quella rimane. Troppo. Purtroppo». E si veda qui la ricorrenza dell’immagine del diarista-attore di cui si parlava all’inizio del paragrafo.
[2] U. Ojetti, Taccuini, a cura di P. Ojetti, Milano, 1954, 149.
[3] C. Cassola, Fogli di diario, Milano, Rizzoli, 1974, 74-75.
[4] G. Morselli, Diario, a cura di V. Fortichiari, con prefazione di G. Pontiggia, Milano, Adelphi, 1988, 10.
[5] L. De Libero, Borrador. Diario 1933-1955, a cura di L. Cantatore e con prefazione di M. Petrucciani, Torino, Nuova Eri Edizioni Rai, 1994, 133.
[6] C. Pavese, Il mestiere di vivere. 1935-1950, nuova edizione condotta sull’autografo a cura di M. Guglielminetti e L. Nay, Torino, Einaudi, c.1990, 134.
[7] B. Sanminiatelli, Quasi un uomo, Milano, Rizzoli, 1968, 221.
[8] B. Barilli, Capricci di vegliardo e taccuini inediti (1901-1952), a cura di A. Battistini e A. Cristiani, Torino, Einaudi, 1989, 103.
[9] Ivi, 42.
[10] Ivi, 65. Si veda anche il già citato passo dai taccuini di Pirandello: «Io mi vedo vivere come davanti a tanti specchi quanti sono gli occhi che mi stanno a guardare» (L. Pirandello, Taccuiniin ID., Saggi, poesie, scritti vari [1960], a cura di M. Lo Vecchio-Musti, Milano, Mondadori, 19733, 1270).
[11] B. Sanminiatelli, Mi dico addio, Firenze, Vallecchi, 1959, 57
[12] Ivi, 403.
[13] Ivi, 552.
[14] B. Sanminiatelli, Il permesso di vivere, Milano, Bompiani, 1963 171.
[15] E. Cecchi, Taccuini…, 73.
[16] G. Morselli, Diario…, 15.
[17] C. Cassola, Fogli di diario…, 59.
[18] Ivi, 59-60.
[19] Ivi, 61.