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"Datura", l'ultima raccolta di Patrizia Cavalli

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Datura
di Patrizia Cavalli

Einaudi, 2013


La recente raccolta einaudiana di Patrizia Cavalli, che offre al lettore componimenti piuttosto eterogenei (dai poemetti di più ampio respiro, a un pezzo teatrale, a brevi poesie amorose, fino agli epigrammi), si intitola ambiguamente Datura, oscillando nel significato dal participio futuro femminile del verbo dare (“che si darà”, nel senso forse di una generosa e imprevedibile eredità ventura), al nome di una pianta spinosa e medicinale, dagli effetti talvolta allucinogeni. Metafora della poesia? Proprio a questo vegetale, e ai suoi fiori notturni e profumati, rende omaggio l'ultimo poemetto del volume. Proibendosi qualsiasi retorica commozione, l'autrice individua la causa delle sue “lacrime spaesate” in oscuri fenomeni atmosferici, meteorologici, che agendo sulle “parti più segrete del cervello” provocherebbero 
soltanto nostalgia che gira e si rigira
dentro il suo molto affaccendato niente. 
Fosche trepidazioni di morte?
Ma io non voglio andarmene così,
lasciando tutto come ho trovato
in questa scialba geografia che assegna
l'effetto alla sua causa.
L'ambizione del poeta è ben altra:

giocare alle parole
immaginando, senza un'identità,
una visione.
E quindi, davanti ai fiori caduchi e pallidi della datura, convincersi che
dipenda da me la sua apparenza,
che ne sia io la sola responsabile,
questa è la gioia fiera del mio compito,
qui è il mio valore. Io valgo più del fiore.
La rivendicazione orgogliosa della sua centralità, fisica e mentale, della sua quasi immortale resistenza al tempo, ritorna ancora in molte delle poesie più brevi, insieme a un auscultare preoccupato e ironico di minimi segni di malessere: “io bevo molta acqua minerale/ per poi molto pisciare, mi curo in questo/ perfettissimo ospedale che vuole/ fare secco il mio gran dio ormonale”; “Come se il cuore inciampasse,/ può cadere”; “Che qualcosa di me/ possa valere, dopo di me,/ anche solo cinque lire più di me,/ mi è insopportabile”; “Rivoglio la mia salute,/ fantasiosa salute/ così potente e certa”; “Salivo così bene le scale,/ possibile che io debba morire?//...Ma adesso/ che cazzo vuole da me questo dolore/ al petto quasi al centro! Che faccio, muoio?/ O resto e mi lamento?”. Una poesia provocatoriamente fisica, quella di Patrizia Cavalli, che si impone con prepotenza quasi canora, nei declamati endecasillabi, nelle rime ribadite, nelle immagini sempre concrete, visivamente scolpite, mai sfumate, mai eteree. Anche i versi amorosi hanno una loro sfrontata presunzione: “E se mi guardi davvero e poi mi vedi?/ Io voglio che stravedi non che vedi!”; “Annoiarsi da soli forse è un lusso,/ ma annoiarsi in due è disperazione”. Molti i punti interrogativi, molti gli esclamativi, per una poesia che si vuole soprattutto orale, declamata a voce alta. Una poesia che assume con fierezza un energico carattere teatrale, come è dimostrato anche dall'intermezzo drammatico dei Tre risvegli, e dalle esperienze di traduzione da Molière e Shakespeare.

Altri due ironici, risentiti e appassionati poemetti sono qui riproposti dopo essere apparsi nel 2011 per le edizioni Nottetempo: L'angelo labiale è una sorta di divertissement giocato sul contrasto non solo fisico, ma anche etico, che contrappone il rumore insultante alla discrezione del silenzio, per concludersi con una spiritosa e svagata elegia pseudo-amorosa. Più spavaldamente dissacrante e pungente è La Patria, amara galanteria in versi rivolta all'idea obsoleta, retorica, vituperata e decaduta di nazione: “Ostile e spersa/ stranita...braccata...tentata...sbattuta/ eccomi qui a pensare alla patria”. Per raccontare la nostra terra comune, Patrizia Cavalli elenca una serie di figure tradizionali, sbeffeggiandole: la madre “calma e abbondante”, “la stanca vedova in affanno” che vizia una prole stupida ed egoista, “la donna giovane, ma austera” casta e asessuata, la cortigiana “scostumata”, la pazza ubriacona in estasi intellettuale da megalomane. Diffidando di queste immagini tradizionali e abusate, la poetessa preferisce affidarsi ai sensi, alle nostalgie, agli odori delle botteghe e dei mercati: meglio cercare la propria patria nei “giorni santi, stupefatti”, nella luce di un “trasparente cielo fino di battista”.

Non si può poi tralasciare di commentare un altro poemetto, La maestà barbarica, sarcastico e bruciante, in cui si tratteggia una figura femminile poetante, che invade con la sua spudorata presenza i quartieri romani: “Grande impresaria della sua pazzia... Ha una recitazione/ arcaico-tragica”, “Ha un'autorevolezza ormai consolidata./ Lei non chiede, possiede”, “La sua eleganza/ è quasi una minaccia”: anche in questo mordace ritratto, Patrizia Cavalli si dimostra impareggiabile bozzettista, di implacabile e sferzante abilità satirica. Ma non sarà forse eccessivo quanto scrivono Berardinelli e Agamben nella quarta di copertina, parlando di “poesie fatte per illuminare e conoscere”, e addirittura definendole come “la poesia più intensamente etica della letteratura italiana del Novecento”?

Alida Airaghi