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Pillole d’Autore: “La pelle”, di Curzio Malaparte

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Nella doviziosa recensione di Laura Ingallinella relativa a «La pelle» (la trovate qui), si faceva riferimento al fatto che i contributi maggiori su Curzio Malaparte non sono prodotti in Italia, ma all’estero; di ciò ho avuto conferma anche poco tempo fa, quando un amico che ha vissuto per diverso tempo in Francia mi ha riferito che nelle librerie dei cugini «La pelle» è uno dei romanzi più presenti e richiesti. Non è questa la sede adatta, né possiedo l’erudizione e le capacità critiche per spiegare ciò che forse non ha neanche senso spiegare, ma mi limito a proporre alcuni passi di un libro che ben si presta a essere arruolato tra quelli che – rifuggendo da tentazioni consolatorie – consideriamo come archetipici per una certa concezione di letteratura.

Edizione di riferimento: Curzio Malaparte, La pelle, Adelphi 2010, pp. 379, Euro 20
«Bande di ragazzi cenciosi, inginocchiati davanti alle loro cassette di legno, incrostate di scaglie di madreperla, di conchiglie marine, di frammenti di specchio, battevano la costola delle loro spazzole sul coperchio delle cassette, gridando: “sciuscià! sciuscià! shoe-shine! shoe-shine!” e intanto con la scarna, avida mano ghermivano a volo per un lembo dei calzoni i soldati negri che passavano dondolandosi sui fianchi. Gruppi di soldati marocchini stavano accovacciati lungo i muri, avvolti nei loro scuri mantelli, il viso butterato dal vaiolo, i giallo occhi lucenti in fondo alle cupe orbite e grinzose, aspirando con le narici accese l’odore magro errante nell’aria polverosa.
Donne livide, sfatte, dalle labbra dipinte, dalle smunte gote incrostate di belletto, orribili e pietose, sostavano all’angolo dei vicoli offrendo ai passanti la loro miserabile mercanzia: ragazzi e bambine di otto, di dieci anni, che i soldati marocchini, indiani, algerini, malgasci, palpavano sollevando loro la veste o infilando la mano fra i bottoni dei calzoncini. Le donne gridavano: “Two dollars the boys, three dollars the girls!”»

«I prezzi delle bambine e dei ragazzi, da qualche giorno, erano caduti, e continuavano a ribassare. Mentre i prezzi dello zucchero, dell’olio, della farina, della carne, del pane, erano saliti, e continuavano ad aumentare, il prezzo della carne umana calava di giorno in giorno. Una ragazza tra i venti e i venticinque anni, che una settimana prima valeva fino a dieci dollari, ormai valeva appena quattro dollari, ossa comprese. La ragione di una tal caduta di prezzo della carne umana sul mercato napoletano dipendeva forse dal fatto che a Napoli accorrevano donne da tutte le parti dell’Italia meridionale. Durante le ultime settimane, i grossisti avevano buttato sul mercato una forte partita di donne siciliane. Non era tutta carne fresca. Tuttavia, la carne siciliana non era molto richiesta, e perfino i negri finirono per rifiutarla: ai negri non piacciono le donne bianche troppo nere. Dalle Calabrie, dalle Puglie, dalla Basilicata, dal Molise, giungevano ogni giorno a Napoli, su carretti trainati da poveri asinelli, su autocarri alleati, e la maggior parte a piedi, schiere di ragazze sode e robuste, quasi tutte contadine, attirate dal miraggio dell’oro. E così i prezzi della carne umana sul mercato napoletano erano venuti meno precipitando, e si temeva che ciò potesse aver conseguenze gravi per tutta l’economia della città.»

«Io voglio bene agli americani, qualunque sia il colore della loro pelle, e l’ho provato cento volte, durante la guerra. Bianchi o neri, hanno l’anima chiara, molto più chiara della nostra. Voglio bene agli americani perché sono buoni cristiani, sinceramente cristiani. Perché credono che Cristo stia sempre dalla parte di coloro che hanno ragione. Perché credono che è una colpa aver torto, che è cosa immorale aver torto. Perché credono che essi soli son galantuomini, e che tutti i popoli d’Europa sono, più o meno, disonesti. Perché credono che un popolo vinto è un popolo di colpevoli, che la sconfitta è una condanna morale, è un atto di giustizia divina.»


«Quella sera Lanza era in casa del suo collega, e i due amici sedevano al buio parlando della strage di Amburgo. I rapporti del Regio Console d’Italia in Amburgo narravano fatti terribili. Le bombe al fosforo avevano appiccato il fuoco a interi quartieri di quella città, facendo un gran numero di vittime. Fin qui nulla di strano, anche i tedeschi sono mortali. Ma migliaia e migliaia d’infelici, grondanti di fosforo ardente, sperando di spegnere in quel modo il fuoco che li divorava, s’erano gettati nei canali che attraversavano Amburgo in ogni senso, e nel fiume, nel porto, negli stagni, perfino nelle vasche dei giardini pubblici, o s’eran fatti ricoprir di terra nelle trincee scavate, per immediato rifugio in caso d’improvviso bombardamento, qua e là nelle piazze e nelle strade: dove, aggrappati alle rive e alle barche e immersi nell’acqua fino alla bocca, o sepolti nella terra fino al collo, attendevano che le autorità trovassero un qualche rimedio contro quel fuoco traditore. Poiché il fosforo è tale che si appiccica alla pelle come una viscida lebbra, e brucia solo al contatto dell’aria. Non appena quei disgraziati sporgevano un braccio fuor della terra o dell’acqua, il braccio si accendeva come una torcia. Per ripararsi dal flagello, quegli sciagurati erano costretti a rimanere immersi nell’acqua o sepolti nella terra come dannati nell’Inferno di Dante. Squadre di soccorso andavano da un dannato all’altro, porgendo bevande e cibo, attaccando con funi alla riva gli immersi perché abbandonandosi, vinti dalla stanchezza, non annegassero, e provando ora questo, ora quell’unguento: ma invano, poiché nel mentre ungevano un braccio, o una gamba, o una spalla, tratti per un istante fuor dell’acqua o della terra, le fiamme subito si risvegliavano simili a serpentelli accesi, e nulla valeva ad arrestare il morso di quella terribile lebbra ardente.
Per alcuni giorni Amburgo offrì l’aspetto di Dite, la città infernale. Qua e là nelle piazze, nelle strade, nei canali, nell’Elba, migliaia e migliaia di teste sporgevano fuor dell’acqua e della terra, e quelle teste, che parevano mozze dalla mannaia, livide dallo spavento e dal dolore, muovevan gli occhi, aprivan la bocca, parlavano.»

«Eravamo dalla Piazza Reale saliti a Santa Teresella degli Spagnoli: e a mano a mano che scendevamo verso Toldo cresceva il tumulto, più frequenti si facevan le scene di paura, di furore e di pietà, e più fiero e minaccioso l’aspetto del popolo. Presso piazza delle Carrette, davanti a un bordello famoso per la sua clientela negra, una folla di donne inferocite urlava e tempestava, tentando di abbattere la porta, che le meretrici avevano barricato in gran furia. Finché la folla irruppe nella casa, e ne uscì trascinando per i capelli ignude puttane e soldati negri sanguinanti e atterriti, che la vista del cielo in fiamme, delle nubi di lapilli sospese sul mare, e del Vesuvio avvolto nel suo orrendo sudario di fuoco, faceva umili come bambini spauriti. All’assalto ai bordelli si accompagnava quello ai forni e alle macellerie. Il popolo, come sempre, al suo cieco furore mescolava la sua antica fame. Ma il fondo di quel furore fanatico non era la fame: era la paura, che si voltava in ira sociale, in brama di vendetta, in odio di se stesso e di altrui. Come sempre, la plebe attribuiva a quell’immane flagello un significato di punizione celeste, vedeva nell’ira del Vesuvio la collera della Vergine, dei Santi, degli Dei del cristiano Olimpo, corrucciati contro i peccati, la corruzione, i vizii degli uomini. E insieme col pentimento, con la dolorosa brama di espiare, con l’avida speranza di veder puniti i malvagi, con l’ingenua fiducia nella giustizia di una così crudele e ingiusta natura, insieme con la vergogna della propria miseria, di cui il popolo ha una triste consapevolezza, si svegliava nella plebe, come sempre, il vile sentimento dell’impunità, origine di tanti atti nefandi, e la miserabile persuasione che in così grande rovina, in così immenso tumulto, tutto sia lecito, e giusto. Talché si videro in quei giorni compiere atti turpi e bellissimi, con cieca furia o con fredda ragione, quasi con una meravigliosa disperazione: tanto possono, nelle animi semplici, la paura, e la vergogna dei proprii peccati.»

introduzione e selezione a cura di Piero Fadda