in

#PilloleDiAutore - La sfida dei giorni, di Piero Santi

- -
La sfida dei giorni
di Piero Santi
Vallecchi, Firenze 1968

pp. 225



11 giugno [1944] – […] Volevo parlare stasera, dei miei interessi interni, ed ho parlato degli altri, non so se per pudore o forse perché ciò che brucia maggiormente lo teniamo con più amore dentro di noi. Ma un giorno potrò narrare la mia cronaca di queste settimane…[1]
Tra i diari novecenteschi, il diario dello scrittore toscano Piero Santi si distingue perché pubblicato in vita senza alcun tipo di autocensura. E dire che la quotidianità della scrittore è tutta divisa tra le tante avventure omosessuali e l'immediato senso di colpa a causa dell'educazione cattolica ferrea ricevuta nell'infanzia. Due temi, insomma, che comportano un'esibizione dell'interiorità più privata, solitamente ripudiata nel Novecento. Così, la Storia e la guerra, l'estrema precarietà passano tra gli aneddoti di Santi, uomo debole e d'altro lato fortissimo osservatore della realtà circostante: 
11 luglio [1944] – L’attesa si fa sempre più acuta. I giorni si susseguono morti: gli avvenimenti stessi che a me ancora accadono, i miei avvenimenti, non violentano, come un tempo avveniva, il sangue delle ore, ma anzi sembrano spengersi; tutto è inutile, queste giornate non sono vissute. Avverto un senso di provvisorio dovunque. Sembra che, dopo, tutto sarà possibile, la vita potrà riprendere il suo cammino; e si fanno progetti di ogni genere. Certo, anche qui è un’illusione: quando la guerra sarà terminata, noi rimarremo col peso di noi stessi: che è questo, alla fine, che ci tormenta sempre.[2]
5 agosto [1944] – In pochi giorni tutto è mutato: la guerra che sentivamo avvicinarsi sempre più, ormai è a Firenze. Siamo in una realtà che finora ci appariva lontanissima, quasi solo sfondo di libri o di scene cinematografiche. Nulla è ancora deciso; mentre scrivo si sentono, vicinissime, cannonate rade: il grosso dell’esercito tedesco, si crede, è già oltre Firenze; ma non sappiamo se si combatterà qui. La nostra vita ci appartiene ancor meno di prima; ma scopro in me una calma spirituale grande, malgrado certi dolori che non potranno calmarsi […][3]
Così, sofferenze personali e sociali si mescolano in frequenti reticenze, e Santi non riesce a parlarne, secondo un tema dell'ineffabilità molto frequente nei diari novecenteschi:

22 settembre [1944] – Vorrei scrivere ma non posso. Tristezza, tristezza, tristezza. Non saprei meglio definire il mio stato d’animo. Ora, che i pericoli sono passati e Dio mi ha fatto rimanere vivo, mi domando: per che cosa?
Dovrò parlare, ma non stasera, dei giorni passati, così crudeli. Ma mi sembra, ora, che non vi sia crudeltà maggiore e dolore maggiore di quelli di ascoltare l’ora che passa senza agire profondamente dentro me stesso.[4]

28 settembre [1944] – Avrei avuto l’intenzione, qualche tempo fa, di narrare con precisione di particolari tutto quel che è avvenuto durante le settimane nelle quali la guerra è stata a Firenze; ma l’uomo è così fatto che dimentica assai presto il dolore e, soprattutto, il sentimento di paura. Rimane dentro di me, ancora, il senso di quei giorni, ma non ho più la violenza del desiderio di ricordare qui gli avvenimenti. Basterà che mi rimandano nell’anima certe sensazioni estreme a cui non ero mai giunto […].[5]
1° febbraio [1946] – Volevo scrivere qui prima d’ora perché in certi giorni mi sembrava di aver qualcosa da fissare di quel che avevo fatto o udito; ma poi la sera tornavo a casa tardi ed ero spento, chiuso in un torpore senza passione. Andavo subito a letto. Stasera per caso sono a casa prima di mezzanotte, più presto del solito […].[10]
(Rilette queste stupide parole. Pretenziose)[11] 
Contrariamente ai luoghi comuni, il diario non è solamente documento privato di un'individualità autoreferenziale: per Santi è anche strumento di comunicazione, una sorta di lettera non spedita, che gli permette di comunicare in un circolo ristretto di amici: 

3 ottobre [1944] – Stamani Mario ha letto a me ed a Renato il suo diario. Mi fa paura quel che sente di me: mi sembra che ogni mio gesto ed ogni mia paura debba deluderlo […].[6] Credo che accada sempre così del resto, di ciò che ci preme: non è possibile annotare in un diario: solo fra molto tempo l’immagine di A., come filtrata nel sangue, potrà farsi strada in quel che scriverò, ma indirettamente e disinteressatamente. Intanto dirò qui di una mia paura: di non saper più amare con violenza…

(Forse vi è una volgarità anche nel desiderare un possesso spirituale?)[7]
Allora anche le definizioni delle funzioni diaristiche vengono via via ripensate, in una serie di commenti metaletterari: 

8 dicembre [1944]
Questo diario diventa sempre meno cronaca di ciò che ho fatto; piuttosto è un documento di alcune sere in cui ho necessità di scrivere; e di scrivere immediatamente, senza dare a questo mio bisogno nessuna ombra di finzione. Ma d’altra parte, com’è possibile annotare quel che capita a noi individui quando fuori di noi, dovunque, gli uomini si stanno preparando con molto dolore e molto sangue un nuovo destino? […][8]
20 dicembre [1945] – […] Questo stesso diario è una prova di questa mia decadenza pigra: è un pretesto per me stesso, forse un’estrema tavola di salvezza. Che, naturalmente, non salva nulla.[9]
5 settembre [1946] (sera) – Talvolta, vorrei appuntare qui ogni particolare minimo della giornata non per un desiderio di documento, ma piuttosto perché penso che se potessi scrivere tutto, come in un film senza “tagli”, ne verrebbe fuori un senso pieno delle ore equilibrate fra atti coscienti ed atti che forse soltanto in seguito, nel ricordo, diventano tali. Ma questo non è dato fare ad alcuno. Potrei farlo soltanto per due o per cinque minuti. Per esempio, sono tornato a casa cinque – o dieci? – minuti orsono: ho aperto la porta piano tastando la chiave nell’oscurità delle scale per avvertire da qual parte la dovevo infilare: ricordo poi che, appena aperta la porta, con la mano sinistra – non so perché – mentre ero quasi già entrato, ho sfiorato il campanello posto fuori, in alto. […] Ma ho forse con questo detto tutto? Sono certo di aver dimenticato numerosissimi piccoli atti […].[12]
Una lunga battuta d'arresto ferma il diario (che nel frattempo era stato pubblicato in una sobria edizioncina, suscitando scalpore nell'Italia perbenista del dopoguerra). Come spesso avviene, un fatto traumatico porta a pensare di riprendere la scrittura:
Maggio [1957] – Ritorno, dopo dieci anni, al vizio del diario. Forse è una scusa con me stesso; invece di scrivere libri, invece di essere me stesso o quel che ho sempre immaginato fossi, eccomi qui, tetro e squallido, a rimuginare cose inerti. Ma è morto Rosai; e questo bisognava che fosse scritto qui per me; altro che cosa inerti […].[13]
Ed è un Santi più intimista, quello che analizza la propria vita adulta, agli albori della vecchiaia. Allora anche il pensiero dell'oblio si affaccia:
14 novembre [1959] – Qualche volta, è buffo rievocare cose nel passato e cercarvi un senso che troppo spesso ci sfugge; e, anche, scovare in esse un riflesso del nostro motivo di essere o di vivere, quasi fossero gli altri, e gli avvenimenti capitati al prossimo, a farci comprendere qualcosa di noi e delle nostre azioni. Senza dubbio, sappiamo ormai da secoli, noi uomini, quanto sia difficile conoscere noi medesimi, ma non abbiamo forse riflettuto ancora abbastanza alla difficoltà che abbiamo a conoscere gli altri. È chiaro: siamo portati a semplificare, a ridurre, a riassumere: e ad illuminar l’altrui carattere mediante la luce ingannevole del nostro (o meglio, di quanto del nostro appare a noi stessi che così poco ci conosciamo: immaginate, dunque, quale guida abbiamo!) […].[14]
Il dramma sentimentale privato torna a turbare la vita di Santi, un dramma indescrivibile: 
Febbraio [1966] – Non è possibile parlare qui degli avvenimenti che hanno buttato me e Paolo Marini in fondo al pozzo. Non ne ho la forza. Un giorno…
5 marzo [1966] – Non mi riprendo. Quando Paolo dovette lasciarmi solo: penso al suo dolore, era stravolto. Sì, un giorno bisognerà che tutto sia chiaro, questi fatti maledetti e schifosi li giudicherò insieme agli uomini che li hanno provocati.[15]
Bruciante e tutto in minore, l'explicit che congeda Santi dal suo lettore. Ben peggio di una perdita dell'aureola:
19 luglio [1968] – […] È tardi, andrò ad un cinema.
Come un tempo? Non direi. Ormai non sono più trentenne. So che non potrò scovare nessun conforto, se non quello dell’aria condizionata.
Potrei anche morire per il caldo, colpo di sole o colpo di calore, come ho letto sui giornale. Sarebbe una morte un po’ disgustosa. (Per me, ho sempre pensato una morte in un posto bianco-tetro: nel gabinetto, accanto allo water […]).

Questa musica che viene giù, nella corte, dalla casa dei Giglioni o di chi sa chi, mi rompe tutto. Pronti, via, alle ore future.[16]



[1] P. Santi, La sfida dei giorni…, 49.
[2] P. Santi, La sfida dei giorni…, 53.
[3] P. Santi, La sfida dei giorni…, 56.
[4] P. Santi, La sfida dei giorni…, 57-58.
[5] P. Santi, La sfida dei giorni…, 58.
[6] P. Santi, La sfida dei giorni…, 63.
[7] P. Santi, La sfida dei giorni…, 64.
[8] P. Santi, La sfida dei giorni…, 75.
[9] P. Santi, La sfida dei giorni…, 96-97.
[10] P. Santi, La sfida dei giorni…, 99.
[11] P. Santi, La sfida dei giorni…, 100.
[12] P. Santi, La sfida dei giorni…, 107-108.
[13] P. Santi, La sfida dei giorni…, 143.
[14] P. Santi, La sfida dei giorni…, 176-177.
[15] P. Santi, La sfida dei giorni…, 197.
[16] P. Santi, La sfida dei giorni…, 223. EXPLICIT