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“È questo il modo in cui finisce il libro”, di Editor Dissidente

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È questo il modo in cui finisce il libro
di Editor Dissidente
et al./Edizioni, 2013

e-book
Euro 1,99


Dopo aver concluso la lettura di questo breve testo (lo si scorre in un pomeriggio) mi è venuto in mente un passo di Miele (Einaudi 2012; traduzione di Maurizia Balmelli) di McEwan: Tom Haley, un giovane scrittore, pubblica una distopia anti-capitalistica che ovviamente viene osannata da pubblico e critica e che vince anche un prestigioso premio: ma un altro personaggio, in quel romanzo, vede:
«facile nichilismo [...] l’incarnazione dei fantasmi che abitavano ogni titolo di giornale, una sbirciata oltre l’orlo dell’abisso, la drammatizzazione del peggio […] un qualcosa di modaiolo in quel pessimismo, era un fatto puramente estetico, una maschera o una posa letteraria.»
Ora, io non penso che l’analisi-sfogo di Editor Dissidente sia una posa letteraria o un fatto puramente estetico, ma mi chiedo: quanto conformismo aderente alla retorica catastrofista c’è in questo pamphlet in cui invece il conformismo liberista viene criticato?
È questo il modo in cui finisce il libro racconta, dal punto di vista di un editor che ha lavorato per anni nel mondo editoriale, la deriva che l’editoria starebbe subendo. Nella premessa leggiamo:
«[…] il libro che vi ritrovate in mano. Che non intende essere l’analisi spassionata, lucida e oggettiva di una particolare condizione socio-lavorativa. Sono troppo parte in causa per questo. Né un (eccessivamente) risentito pamphlet contro chi può dire di aver vinto – per ora. Men che meno un trattatello sulla buona editoria. […] Questo libro è casomai un bilancio esistenziale.»
L’autore specifica:
«dicendo editoria farò in verità riferimento solo alle medie e grandi case editrici […], non alle piccole.»
Già qua mi sorge una perplessità: perché scegliere un titolo apocalitticamente onnicomprensivo quando ci si riferisce invece a una porzione (seppur consistente) dell’editoria, e quando si dice esplicitamente che il libro non vuol essere un’analisi “lucida e oggettiva” ma “un bilancio esistenziale” (ossia soggettivo)? È una provocazione? Non va preso alla lettera, certo, ma sinceramente inizio a essere un po’ stanco di provocazioni e di sentire iperboli escatologiche e definitive oramai quotidianamente, per gli argomenti più disparati: da “la squadra più forte di sempre” a “l’estate più calda di sempre” all’attesa perenne che arrivi ’sto disastro tartaro che ucciderà l’editoria e di conseguenza anche la letteratura. Mi chiedo: perché? Perché si perde l’equilibrio e si va alla ricerca del sensazionalismo lessicale, della “drammatizzazione del peggio” o anzi – aggiungo – della teatralizzazione del peggio (che è – appunto – peggio, parafrasando Puffo Quattrocchi): a chi giova gridare al lupo ogni 24 ore? Capisco che nel giornalismo possa capitare, ma nel mondo della cultura non dovrebbe persistere un maggiore equilibrio? Perché non si considera che, come ci insegna la favola in cui si urla “al lupo, al lupo!”, inflazionando di idee catastrofiste un dibattito si anestetizza il destinatario, invece di sensibilizzarlo?
Siamo in un momento di crisi economica, lo sappiamo tutti, e la crisi che di conseguenza subisce anche il mondo editoriale è purtroppo vera, sanguinosa, e concreta: ma da qui a vedere la fine dell’editoria o della letteratura, be’ secondo me ce ne passa un bel po’.

Ma di cosa parla, nel dettaglio, questo libro? Affronta, schiaffeggiandolo polemicamente, il mondo editoriale italiano degli ultimi anni, esponendo i fattori che ne starebbero decretando il declino: fattori che qualsiasi lettore un po’ navigato conosce a menadito:
interesse dei grandi gruppi editoriali più verso i bestseller/libri commerciali che verso la qualità, e di conseguenza eccessivo potere ai manager che gestiscono le case editrici come aziende perdendo di vista l’importanza del ruolo culturale: cito:
«Se un tempo a decidere la politica editoriale erano gli editori – più o meno insensati, ma con loro distinte e riconoscibili personalità, e con il loro attaccamento al proprio patrimonio, tanto culturale quanto economico –, ora sono manager fatti con lo stampino, interessati solo a guadagni facili, di breve periodo, sfruttando un patrimonio – umano ed economico – altrui. Paiono usciti tutti dalla stessa matrice. Hanno lo stesso modo di parlare, di vestire, di ragionare. Hanno gli stessi tic. Soprattutto hanno la stessa ambizione: fare soldi, farne tanti, farne sempre di più.»
- banalizzazione e massificazione delle pubblicazioni:
«È ugualmente la logica dell’arricchimento facile che ha imposto la ricerca conseguente del bestseller che […] può essere ricreato di continuo, a tavolino, e invadere le librerie fino a sommergerle. Bastano pochi ingredienti scontati. Basta un’idea, spesso copiata da altri, non importa quanto intelligente e originale.»
Poche pagine dopo, però, si dice qualcosa che parrebbe contraddire ciò:
«[…] tutti cercano gli stessi libri, ossia quelli che vendono – come se si potesse sapere in anticipo quali sono, come se i lettori non avessero un loro libero giudizio, come se la storia fosse ferma e non potesse più consentire cambiamenti nei gusti, negli interessi, nelle priorità.»
- scarsità di lettori:
«Anche i lettori in Italia sono pochi (meno della metà della popolazione dichiara di aver letto almeno un libro in un anno) e pochi sono gli autentici bestseller. Con questi si fanno i numeri e i giochi dell’editoria nel suo complesso. Ed essi rispondono evidentemente ad alcune esigenze profonde del pubblico, riescono a intercettare un bisogno e gli danno risposta.»
(Ma poco prima si era detto che non si possono conoscere in anticipo quali siano i gusti dei lettori.)
Nelle pagine successive leggiamo:
«Anche dal valore di quello che si pubblica discende la possibilità per una democrazia di formare buoni cittadini […] piuttosto che plebi pronte a farsi trascinare dal primo pifferaio.»
Ma, mi chiedo, se i lettori sono così pochi come è possibile che ciò che si pubblica influisca sulla formazione di “buoni cittadini” in maggioranza non-lettori?

- Eccesso di soldi:
«[…] quando non c’erano manager o funzionari, ma folli innamorati del loro lavoro mal retribuito; soprattutto, quando non circolavano ancora tanti soldi e l’editoria era un’industria povera, poco appetibile, per questo più adatta agli idealisti che alle ambizioni di qualche dirigente.»
Più avanti si dà spazio, nella sezione “Il vero manager”, a una critica sul metodo di lavoro dei capi: si parla del fatto che abbiano le scrivanie sgombre («In tal senso scansafatiche e capi coincidono: entrambi hanno la scrivania sgombra.»), che non comunichino («Altra caratteristica che contraddistingue i capi è quella di non dare risposte.»): ciò è senza dubbio un problema di rilevanza, ma io lo inquadrerei più nell’ambito di dinamiche interne aziendali da correggere, piuttosto che relazionarlo al pericolo di morte dell’oggetto libro in sé. Si potrebbe obiettare che è un elemento che contribuisce al clima di decadimento che causerebbe l’estinzione del libro, ma sinceramente fatico a pensare che venti, trenta, quaranta e cinquanta anni fa tutti i capoccia delle case editrici fossero grandi comunicatori e capi irreprensibili.

Ciò che trovo sempre incomprensibile (a maggior ragione negli ambienti di cultura) è l’idealizzazione retorica del passato e la distruzione concettuale del presente: che non vuol dire che non ci sia bisogno di critica della contemporaneità: quella è sempre necessaria, ma al contempo non deve cadere nell’assolutizzazione temporale dei concetti, nella tentazione dell’Apocalisse, nei millenarismi. A mio parere ciò denota una grande presunzione generazionale: ci si vede come ultimi depositari di valori esistenti da millenni, come dei “privilegiati” che assistono al declino finale, dopo il quale non ci sarà più nulla: le successive generazioni, che stanno crescendo o devono ancora nascere, sono quasi considerate come vittime sacrificali che non avranno più capacità critica, che non sapranno più cosa è un libro, cosa è letteratura, ci saranno solo greggi di minus habens. Certo, nessuno si esprime in questi termini, ma ragionando in quel modo le conclusioni sono queste: c’è poco da girarci attorno.

Il tono dello scritto è quello dello sfogo, e nella parte conclusiva (sezione “Che fare”) l’autore scrive:
«La ragione autentica di questo sfogo sta nella convinzione che in un mondo che mostra ormai la corda in quanto a sostenibilità, in sempre più instabile equilibrio, e in un momento in cui tutte le certezze su cui questo mondo si è edificato paiono convertite in favole, proprio quando si potrebbe delineare l’occasione di mutare strada, sarebbe anche il momento di tentare di cambiare le imprese culturali. Affinché non rinneghino più il loro ruolo, non perseverino nel tradire la loro missione. Che è quella di far circolare idee, di cercarne sempre di nuove, di sovvertire prospettive consolidate, dogmi e stereotipi, di tenere vivi insomma la fantasia e il pensiero. E di farlo nell’interesse comune.»
Tutto molto condivisibile, e ci mancherebbe altro.
Poi:
«Parrebbe una scelta irrazionale quella di uccidere proprio la vitalità della cultura, e proprio ora, ma questo non basta a escludere che ciò avvenga.
[…] Se questo accadrà, i danni saranno pesanti. Le vittime non saranno poche. La libertà di pensiero – quella autentica, non quella millantata – ne sarà compromessa, se non per sempre, per lungo lungo tempo. La cultura non sarà diventata più democratica, sarà solo appannata, esangue, costretta in un vicolo cieco.»
E qui, invece, si cade secondo me nel millenarismo: la cultura può anche attraversare momenti di crisi o disprezzo altrui (si ricorderà sempre la frase di Tremonti: “La gente mica si mangia la cultura”), dovuti anche a fattori esterni come in questo momento storico, e la libertà di pensiero subire momenti di alti e bassi: ma perché dovrebbero sparire “per sempre”? Mai come oggi ci sono stati così tanti scrittori (buoni e meno buoni), si sono fatti così tanti film, pubblicati così tanti libri, organizzati così tanti festival, stimolati così tanti dibattiti dentro e fuori dalla Rete: il che non vuol dire che siamo nel Paradiso e che tutto va bene, tutt’altro: forse c’è anche overdose di offerta: ma tutto possiamo dire, tranne che – a mio parere – la cultura stia subendo un degrado o rischiando la morte. Aumenta l’intrattenimento superficiale, ma aumentano anche le proposte di qualità, per chi le sa cercare e trovare. Io sono convinto che fino a quando esisterà l’uomo esisterà la cultura perché nasceranno sempre persone che la faranno, anche solo per la teoria della probabilità. Forse siamo in un momento di trasformazione, e non di Apocalisse, anche perché i temi affrontati in questo libro sono discussi da decenni, ossia esattamente da quando la “produzione” di libri è diventata industria culturale, con tutti i suoi pregi e i suoi difetti (e soprattutto i difetti spingono a evocare periodicamente la morte di qualcosa: della cultura, della letteratura, del libro, dell’editoria stessa).

Trovo icastico il commento di un lettore su Amazon: «Mi aspettavo qualcosa di più, di un lamento. Giusto, ma sempre un lamento, che non aggiunge nulla o poco all’ovvio.»

Da un punto di vista sociologico mi chiedo anche quanto per la società letteraria siano concrete le crisi editoriali (dando per scontato che quella odierna è tangibile, concreta, in quanto conseguenza di una più profonda e generalizzata) e quanto invece siano frutto di un inconsapevole negativismo conformistico: da quando sono nato, sento dire che il libro è in crisi. La “crisi” è però, per definizione, un evento temporaneo, per quanto a lungo possa durare. Nel mondo dell’editoria il concetto di crisi è invece uno status (perenne).

Vorrei citare alcuni passi di un libro (mi si perdoni per il riutilizzo, visto che li avevo messi in evidenza per un altro articolo sempre su questo sito) che non mi stanco di rileggere, anche solo per non cadere nel pessimismo, ossia Dieci domande sui libri, di Herbert R. Lottman (47 pagine, circa 4 euro, 1993, Sellerio editore, traduzione di Stefano Mauri):
«Passo gran parte del mio tempo con persone che lavorano nel settore librario […] Vado anche alle Fiere, alle troppe Fiere […]. Professionisti e non, mi fanno spesso domande come: “C’è la crisi del libro in questo o quel Paese?”»
«Una delle cose che piace ai bambini, a detta degli psicologi, è spaventarsi o essere spaventati dagli altri. C’è una specie di adulto che fa la stessa cosa; è colui che si occupa di libri. Spesso, in Francia o in Spagna o in Italia, guardando i risultati di un’indagine sulla lettura, si scopre che il 50% o 60% della popolazione non legge (o non compra mai) un libro, che il 60 o 70% legge solo un libro all’anno, ecc. – e questo dovrebbe scioccarci. Ma ciò presupporrebbe che noi sapessimo in che percentuale la popolazione leggeva o comprava libri 25 o 50 o 100 anni fa. Se lo sapessimo veramente, ci sentiremmo meglio, perché scopriremmo che le statistiche di oggi sono le più favorevoli che si possano avere. I libri non sono mai stati distribuiti così diffusamente e non sono mai costati meno; sicuramente ci sono più lettori e consumatori di libri oggi che in passato.
Certo, in periodo di recessione, si compra meno di tutto – e di questo ci accorgiamo.»
«“Non siete stufi di sentire che la letteratura è in crisi”, ha chiesto l’editore francese Hubert Nyssen di recente, “che gli editori sono matti, che i librai non sanno fare il loro mestiere, che i francesi non leggono?” Nyssen […] aggiunge che è ben stufo di sentire queste lamentele. “A volte penso”, dice, “che se tutta quell’energia venisse spesa per migliorare le cose che vanno male, tutto migliorerebbe. Possiamo negare che vengono pubblicati buoni libri, che i librai se ne occupano, che i critici ne scrivono e che i lettori li leggono?”»
E, per chiudere con un’altra citazione, posso dire che rispetto al testo di Editor Dissidente, ho trovato molto meno retorico e più sobriamente profondo il Manifesto dell’ODEI (Osservatorio degli editori indipendenti), da cui traggo un passo:
«[…] siamo di fronte a un mercato davvero così “libero”, governato dalla mano invisibile delle ruvide leggi della domanda e dell’offerta? I diversi soggetti che abitano questo mercato si muovono tutti ad armi pari sottoposti al solo criterio del gusto del consumatore? Sul risultato finale della vendita del libro è del tutto irrilevante che un gruppo, o un singolo marchio editoriale, sia proprietario della distribuzione e di una parte consistente dei punti vendita? E, all’interno di queste stesse librerie di catena, qual è il criterio che assegna spazio e visibilità ad alcuni marchi editoriali, negando o limitando quello di molti altri?
In questi stessi anni la filiera del libro ha progressivamente eroso i margini di ciò che resta all’editore del prezzo di copertina. La legge italiana sul prezzo fisso (legge Levi), oggi garantisce che i libri siano venduti grossomodo allo stesso prezzo in tutti i punti vendita, limitando e regolando la possibilità di sconto e di offerta al pubblico. Ma nessuna legge regola le percentuali di sconto che la distribuzione e la promozione trattengono, né le percentuali di sconto che le librerie rivendicano e spesso riescono a imporre. La concentrazione della filiera ha reso così alquanto asimmetrica una relazione contrattuale che vede, da un lato, noi editori indipendenti e, dall’altro, una o più reti di librerie in grado di dettare le condizioni dell’accesso al mercato. Con un accesso al mercato di fatto “monopolizzato” dai circuiti delle librerie di catena, siamo venuti a trovarci nell’impossibilità di negoziare qualunque condizione economica. A maggior ragione, quando a “mediare” tra noi e le librerie sta un distributore la cui compagine societaria è chiaramente riconducibile a quella delle stesse librerie a cui vende.»
Quali sono i veri problemi dell’editoria, ci chiediamo a questo punto?

Piero Fadda