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CriticaLibera: una Puglia da tregenda popolare

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Locorotondo
Cerchi un libro che parli della terra dove stai viaggiando e improvvisamente un libraio ti mostra un testo e dentro a questo testo c’è perfino la firma dell’autore passato di lì poche ore prima. Mario Desiati è di Locorotondo, un paese della valle d’Itria dove scatti foto a ripetizione. Bianco e rapito dalla festa del patrono.

Dove trovo il suo romanzo, “Il paese delle spose infelici”, è a Martina Franca. Barocca e baronale. Lasci la costa nei pressi di Fasano e sali verso un altopiano dove la sera rinfresca e schiere di tarantini si fiondano creando file infinite lungo una delle tante strade della morte, a doppia corsia alternata, di questo paese. Io la percorrevo in senso inverso, quando sceglievo lo Ionio, e a un certo punto, da un altura del territorio che la carreggiata traduce in discesa spedita, vedevo Taranto. Erano i giorni caldi dell’Ilva. Ognuno la pensi come vuole, ma a Taranto, ogni mattina, una nube sottile aleggiava sui destini.


Martina Franca
Credevo di andare alla scoperta della Puglia a Castel del Monte, infatuato da Federico II, perfino della puglia ebraica, rivelatasi a Oria, Altamura, Manduria. Poi gli scorci delle gravine e, ovviamente, il mare. E il bianco di Ostuni, la cattedrali di Trani e il romanico di Bitonto e Ruvo. Ma il paese delle spose infelici è anche un paese arcaico, più arcaico dei messapi, dove si aggira la dea madre. Qui ce n’è una, scandisce l’apertura e anticipa il registro narrativo dominante, realistico ma venato di malia: di fronte a un gruppetto di lavoratori in pausa compare infatti una ragazza vestita con l’abito bianco, che cammina nel letto di un torrente semi-prosciugato, il Taras, e chiama a sé gli esterrefatti operai. È Annalisa D’Efebo. «Torna spesso quell’immagine della sposa nel torrente. Nel paese delle spose infelici ogni diceria era il segnale di questa maledizione. Non è certo una coincidenza che da queste parti la maledizione in dialetto si chiami affascino». Sentite qua: affascino. Lungo il Taras. Roba da mitologia. Da Magna Grecia.

Ostuni
Martina Franca, dove Desiati si è trasferito, ci accompagnerà nella storia: «città di trulli, vino bianco e belle fanciulle, dove anche le matte sono donne affascinanti». C’è poi vicino una località che ha una fama lugubre, Monte Oro. Lassù le spose infelici, che non vogliono sposarsi, condannate dalla famiglia a farlo con uomini sgraditi, si gettano nel baratro dalla rupe. Restano a incupire l’aria le loro ombre. «La notte i fantasmi di queste donne giravano per le strade deserte e bianche del borgo antico». Peraltro non erano sole: «Ogni estate si toglieva la vita qualche studente depresso gettandosi nei pozzi artesiani, qualche vecchio contadino intristito si legava ai rami nudi di un noce». Solo Annalisa, quando appare, è capace, con la sua enigmatica bellezza, attraverso la sua tragica generosità, di accendere un po’ di luce. Perché «si portava sulle spalle le mille anime suicide di questo territorio».

Trulli
È questa la Puglia dove ho vissuto un mese circa. Mentre scorrevano le pagine e lasciavo che gli altri due protagonisti, Veleno e Zazza, passassero da un provino per una squadra di calcio a scelte patetiche. E quasi tutte le mattine si profilava il petrolchimico di Taranto, la promessa del benessere. Liquami e miasmi. Taranto, da colonia spartana a capitale della politica chiassosa e inconcludente. Ricordiamo tutti gli anni del sindaco Giancarlo Cito, la potenza di una disgregazione che, complice la passività indotta dalla miseria, non risparmia nessuno, né i distrutti dalla droga, né i consumati dagli altiforni e ridotti a scheletri storditi.

C’è anche un’altra cosa nel libro di Desiati, ammorbante, ma non la rivelo perché dovete leggerlo e magari usarlo come richiamo se un giorno viaggerete per le Murge. È una cosa che non ho avuto però il coraggio di ricercare perché capisco dove Desiati voglia portare, capisco anche le urla laceranti che imprecano indulgenza ma che non commuovono nessuno. Ma quello che stavo vivendo, in fondo, era un viaggio. Che se vogliamo è la ricerca di una vocazione, minima, dove lavori precari, sfortunati tentativi di sfondare e senso di finitudine che permea l’esistenza possono ancora attendere.