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Qui, ad Auschwitz, con un libro in mano

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Come si fa a descrivere Auschwitz quando c’è I sommersi e i salvati di Primo Levi (Einaudi, 1986)? A trovare parole proprie quando l’emozione è tale da zittirti ed esiste questa prova di forza umana e letteraria? Io, nel visitare il campo di concentramento più tristemente famoso, quello che ci consente ancora di parlare a ragione di unicità della Shoah, ho fatto ricorso a quel libro come fosse una guida dei luoghi, dall’ingresso con quella ridicola scritta sul lavoro che rende liberi alle baracche in cui i nazisti attendevano che esseri umani fossero pronti per il macello.
La sequenza di barbarie e offese iniziava con la deportazione: enormi carri merci, tuttavia non abbastanza grandi per il numero di persone stipate per giorni senza cibo, acqua o una latrina. La selezione cominciava qui, nella promiscuità, nell’aria mancante o appestata dal tanfo di escrementi, vomito, corpi in decomposizione. Poi scendevi in un’atmosfera irreale, urla in tedesco, violenze, cani che ringhiavano, mordevano, la separazione dai tuoi cari. E il vortice delle costrizioni. Una delle più inutili, ci torneremo su questo aggettivo, che il prigioniero doveva subire, una volta entrato nelle fredde stanze dove avveniva la privazione degli abiti, delle scarpe e degli oggetti personali, era il taglio dei capelli e dei peli. Necessità di maggiore pulizia, dato il proliferare dei pidocchi? Macché: solo violenza offensiva nella sua ridondanza. D’altronde un uomo nudo, scalzo e privo di peluria è l’icona della preda inerme: gli aguzzini lo sapevano. Si chiede Levi:«Esiste una violenza utile? Purtroppo sì. La morte, anche la più clemente, la non provocata è una violenza, ma è tristemente utile: un mondo di immortali non sarebbe concepibile né vivibile». Ad Auschwitz tutto invece avveniva all’insegna dell’inutilità. Non c’era bisogno di infinite umiliazioni ai danni di chi era già annichilito e schiacciato eppure i tedeschi non retrocedevano dall’intento.

Il passo successivo era la vestizione di un uomo già declassato ad altro con la divisa dai cinque bottoni obbligatori. Guai a perderne uno. Dentro la baracca i letti dovevano essere rifatti in un certo modo, fuori la marcia era cadenzata incomprensibilmente da musiche di banda. Caratterizzava i primi giorni di prigionia, la mancanza di un cucchiaio. Un dettaglio? Certo, per noi. Proviamo a pensare a chi si nutriva ogni giorno di una sola e misera zuppa.
Ed ecco la mortificazione più grossa: il tatuaggio, invenzione di Auschwitz. L’operazione era poco dolorosa ma il suo significato era enorme: «Questo è un segno indelebile, questo è il marchio che si imprime agli schiavi e al bestiame e tali voi siete diventati». La violenza del tatuaggio era gratuita, appunto, pura offesa. Imprimerlo agli ebrei era simbolico perché vietato dalla legge mosaica: i tedeschi erano consapevoli pure di questo.
Poi i giorni, i mesi,cominciavano a scorrere e pareva incredibile sopravvivere visto l’uso dei prigionieri come cavie umane per esperimenti scientifici o una pallottola sparata per uno sguardo alla persona sbagliata al momento sbagliato o ancora i forni crematori sempre attivi. Intanto non era possibile pensare al suicidio: la condizione bestiale non lasciava spazio a pensieri ragionati. Emergevano allora i sommersi, quelli che prima vacillavano poi non avevano più storia perché abbattuti senza pietà ma anche quelli che diventavano funzionari del campo, cuochi, infermieri,guardie notturne, spioni, sovrintendenti alle latrine o alle docce. Ma potevano essere biasimati, in un campo di sterminio? Dove si conduceva un esperimento mostruoso ovvero la trasformazione di un uomo in non-uomo? Se la zona grigia del lager mostrava che l’insieme dei rapporti umani non era riducibile ai due blocchi delle vittime e dei persecutori chi potevano essere i salvati? Erano coloro che riconoscevano «sempre, anche nei giorni più scuri, nei miei compagni e in me stesso, degli uomini e non delle cose e sottrarsi così a quella totale umiliazione e demolizione che conduceva molti nel naufragio spirituale».


Qualcuno è sopravvissuto, Primo Levi stesso: «Noi siamo una minoranza anomala oltre che esigua: siamo quelli che, per la loro prevaricazione o abilità o fortuna, non hanno toccato il fondo». All’interno di questa intima riflessione, s’inserisce il tema della vergogna e il momento in cui i cancelli e le recinzioni del campo vennero divelte dai soldati russi. Levi rileva come, nella maggior parte dei casi, l’ora della liberazione non sia stata in realtà lieta ma soltanto l’ora della vergogna, l’inevitabile senso di colpa emerso dalla consapevolezza di non aver fatto nulla, o non abbastanza, contro il sistema da cui i prigionieri sono stati assorbiti, sommersi. I salvati, una volta riconquistata la libertà, sono stati individui consapevoli della loro menomazione, privati di un passato e di un futuro, alienati, fino al punto da essere indotti al suicidio. Come Primo Levi, in un aprile di 26 anni fa.