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Una raffinata grammatica di simboli: invito alla lettura del "Garofano rosso"

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Il garofano rosso
di Elio Vittorini

Mondadori (1948)

184 pp.
9 €



Quella del Garofano rosso fu una vera e propria via crucis compositiva causata dalla censura fascista. Il romanzo scritto tra il 1933 e il 1934 apparirà in volume solo nel 1948. Vittorini ne accompagnerà l’uscita con una lunga prefazione nella quale ripudierà il romanzo stesso. Siamo, quindi, di fronte a un caso particolare a cui si aggiunge un paradosso: prendere le distanze dal proprio romanzo, esattamente nel momento in cui viene dato alle stampe. Atteggiamento ambiguo sì, ma non ingiustificato. Tra la stesura e la pubblicazione passano anni densi e decisivi, e non mi riferisco ai cambiamenti epocali della storia o ai mutamenti ideologici di Vittorini ma alla sua Bildung letteraria, alla sua evoluzione come prosatore. Accade che Vittorini si trovi a guardare al romanzo da una prospettiva falsata, e a valutare le modalità del racconto , la veridicità della storia partendo da Conversazione in Sicilia, dal romanzo del nòstos per eccellenza. Il Garofano rosso viene eclissato dalla maturazione a cui è giunta la sua parola. Vittorini , attraverso la prefazione, un vero e proprio capolavoro di poetica, si sente in dovere di chiarire e giustificare il fatto che il libro non si sia evoluto con lui:

«Ma i tredici anni che sono trascorsi senza che il libro sia andato al pubblico in volume, e senza che, pur restando con me stesso, sia mutato, senza che sia diventato quello che io sono diventato, senza ch’io ne abbia fatto un mio libro di ora, questo sì debbo giustificarlo».

Il fascino di quest’opera deriva proprio dal situarsi in un guado, nel rappresentare una fase intermedia, di passaggio, una tensione verso una comprensione globale della realtà. Vittorini racconta della crescita di Alessio Mainardi ma tra le righe si legge anche la sua personale crescita intellettuale. Siamo di fronte a un romanzo di formazione, che però mette in gioco una pluralità di voci sullo sfondo di un’esperienza collettiva come quella del primo fascismo, ancora movimento rivoluzionario e anti borghese. La Bildung di Alessio, come in controluce, messa di fronte a quella di un altro personaggio, Tarquinio, risalta in primo piano. Si delineano due percorsi opposti: Tarquinio porterà a compimento la sua maturazione e Alessio sarà messo di fronte a questa realtà a lui totalmente estranea e riluttante; l’imborghesimento di chi aveva creduto nella rivoluzione per Alessio sarà un vero e proprio tradimento.

«Ma alla “cava” non era così.»
«Ma alla “cava” era un gioco» disse Tarquinio. «Non te ne sei reso conto, ancora? Io sì. Capisci, si può aver avuto la “cava” a sedici anni, e nella vita mettersi a fare il ragioniere di banca, se non hai veramente qualcosa dentro, che te lo impedisce. E io sono schiavo, schiavo, schiavo di un qualche cosa che mi impedisce... Eppure vorrei tanto; essere proprio libero di poter fare anche il ragioniere, perché no? Vedrai appena ti senti cresciuto anche tu, e non è detto che debba toccarti a diciannove anni, potresti restare ragazzo fino a trenta , e fino a più. Ma vedrai; a un certo punto ci si accorge come sarebbe bello dire: farò questo. Non c’è genere di vita che non appaia bello, e viene smania di esserci già dentro anche se è una vita da ragioniere. Sai, una volta lì non c’è differenza, non ci sono dei borghesi; si è grandi e basta...»
Ero stupito.

Alla pluralità di voci si somma una pluralità di codici, come pagine diaristiche e forme epistolari che separano i vari blocchi narrativi. La parte centrale racconta del ritorno di Alessio alla casa paterna. Dal confronto col passato si generano immagini, epifanie, e si fa sempre più chiara la fitta rete di simboli che Vittorini ha costruito fin dall’inizio. Simboli che si collocano su due binari di lettura che corrono paralleli ma che in realtà sono uno il rimando dell’altro: la madre e la regressione all’infanzia. Un’attenta lettura farà scoprire come, pagina dopo pagina, Vittorini costruisca una raffinata grammatica di simboli, a partire dal garofano per proseguire con l’albero di fico, l’elemento dell’acqua, l’immagine della Madonna a cavallo e la lettura delle Mille e una notte. Elementi che si intrecciano e che ritornano come echi nell’intera narrazione. 

A tutto ciò si affianca l’esperienza sentimentale. Giovanna sarà una figura dai contorni indefiniti, presente solo attraverso le immagini che Alessio ha creato e rimaneggiato nella propria mente; diventerà sinonimo dell’amore stesso e alla fine si confonderà con la misteriosa figura di Zobeida, colei che condurrà il protagonista attraverso il rito dell’iniziazione sessuale. In Zobeida si condenseranno l’aspetto erotico e la dimensione materna e non ultimo, come già suggerisce il nome, gli echi orientali. Zobeida subirà nell’immaginario di Alessio numerose metamorfosi, sarà regina, madre, bambina e infine una urì. La stanza della prostituta annulla l’esistenza del mondo, della socialità e si fa rassicurante grembo materno.

Per il lettore sarà un’esperienza interessante immergersi in quest’atmosfera suggestiva, seguendo quella che per Alessio sarà una crescita senza approdo.