in

Huckleberry Finn: la finzione in un capolavoro americano

- -
Le avventure di Huckleberry Finn 
di Mark Twain


Garzanti, 2009
€ 8,00





Non ha certo bisogno di presentazioni Huckleberry Finn di Mark Twain, ma come spesso accade per i grandi romanzi, vale sempre la pena rileggerli (...o leggerli, perché no?). Se non fosse stato per quella frasetta uscita fuori dal poco amato Hemingway cacciatore e messa per iscritto dall’apprezzato scrittore che era, forse nessuno citerebbe mai Verdi colline d’Africa, romanzo del 1935 non osannato né dai critici né da gran parte dei fan dell’autore. Ad ogni modo, la frasetta famosa (la trovate in Verdi colline d’Africa, nel primo volume dell'edizione Meridiani Mondadori, a pag. 1111) è quella che vede il romanzo di Mark Twain (prima edizione del 1884) come antesignano di tutta la letteratura americana. Come a dire che le vicende di Achab hanno minor valore letterario di quelle di Huck Finn? Hemingway aggiunge inoltre che non solo prima, ma neppure dopo, in tutta la letteratura americana ci sia stato qualcosa che l’abbia superato. Forse perché in Huckleberry Finn c’è tanta America, con la sua gente e le sue tante lingue. Riprendendo le parole di Giovanni Baldi (tratte dalla prefazione dell’edizione Garzanti) [1] «[…] grande romanzo nazionale che per la prima volta abbandona la lingua aulica dei grandi romanzi dell’Ottocento americano [Gordon Pym, Lettera scarlatta, Moby Dick] ponendo le basi del linguaggio letterario del romanzo americano del Novecento»...
Comunque non basta, perché in Huckleberry Finn c’è l’America con il suo fiume (Mississippi), la sua gente, i suoi problemi e la sua storia. Ma c’è anche tanta letteratura. Prima di tutto perché è un racconto ma è anche un libro, e il protagonista lo tiene presente dall’inizio e alla fine. E poi perché c’è un personaggio apparentemente secondario, che appare all’inizio e ricompare alla fine del romanzo, che in realtà ha un ruolo molto importante: Tom Sawyer.

La vicenda narrata inizia attraverso la sua presentazione, come il prosieguo del precedente Le avventure di Tom Sawyer, vicenda godibile che dove però non possono essere individuate quelle caratteristiche proprie che rendono Huckleberry Finn un capolavoro, un classico, un (il, stando a Hemingway) romanzo fondante della letteratura americana. Tom Sawyer è un giovane ben più pulito ed educato dell’incivile Huck (che cerca di non vivere con il padre ubriacone che lo bastona e pretende che dimentichi perfino di leggere, ma che comunque preferisce i suoi abiti sporchi e la vita on the river fatta di pesca piuttosto che gli abiti attillati di Miss Watson che dovrebbe riuscire a civilizzarlo), il quale sembra vivere in una perenne montatura letterario-avventuresca della vita. E quindi ciò che dice e che fa, lo dice e lo fa perché lo ha letto da qualche parte e non sempre lo ha capito. Huck lo appoggia  nei suoi progetti fantastico-avventurosi, seppur talvolta con qualche perplessità. Fino a quando, dopo qualche pagina del romanzo, Tom esce di scena e Huck e il mondo vero diventano i soli protagonisti. Nessun assalto alle diligenze e nessuna richiesta di riscatto per i sequestrati, ma le botte di un padre realmente alcolizzato e il desiderio di fuggire da lui, ma anche dalla civiltà (dormire sul letto, fare il bagno, vestirsi a puntino). E così, una volta libero, se ne va via lungo il fiume su una zattera insieme al negro Jim, schiavo fuggiasco. E non si rivelerà forse tanto più avventuroso questo lungo squarcio di vita reale che non le stupidaggini tirate fuori da Tom Saywer? Ah – si rammarica Huck – se ci fosse Tom…

Se ci fosse Tom a vivere lo scontro tra Gangerfords e Shepherdsons due famiglie in lotta tra loro da una eternità tanto che non si conoscono nemmeno le cause: gente che si ammazza veramente! E se ci fosse Tom, a supportare le vere e proprie truffe del duca e del re e a farsi imbrogliare in prima persona, consapevolmente. Proprio come un lettore di romanzi si lascia ingannare dalla narrazione e deliberatamente lo accetta e, anzi, è ciò che desidera, la finzione perseguita Huck lungo il suo idillio per il Mississippi; e non è forse quel desiderio di letteratura che perseguita anche Mark Twain per tutta la sua vita “pratica” di pilota di battelli, tipografo, cercatore d’oro, giornalista, conferenziere e investitore?
Ma Tom ritorna al momento opportuno (alla fine del romanzo) a dare vita all’estrema finzione letteraria: al camuffamento dei due personaggi che metteranno insieme la più ridicola evasione (di Jim che nel frattempo è stato imprigionato) che si sia mai ricordata in letteratura. Se fosse stato per Huck, Jim sarebbe stato liberato semplicemente, ma ciò non sarebbe mai potuto avvenire, proprio perché ormai Huck era diventato Tom, letterariamente, per un fortunoso e fortunato scambio di identità. E così ci si appresta a portare per le lunghe l’assurda evasione di un prigioniero che è già libero per testamento della sua padrona. A quale scopo?

«Se lo legge [dice Hemingway a Kandisky, suo compagno di caccia e di chiacchierate letterarie in Verdi colline d’Africa] si fermi però quando i ragazzi perdono il negro Jim. Quella è la fine, il resto è un trucco».




[1] M. Twain, Le avventure di Hucleberry Finn, Milano, Garzanti, 20095 , p. XXV.