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CriticArte - Provenzano, il tufo e altri racconti

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Tufo
La storia di Gianni Provenzano è duplice. Da un lato, abbiamo il suo paese natio, Naro, e il passaggio ad Agrigento; dall’altro, abbiamo un arco di tempo compreso tra gli anni sessanta e gli ultimi dei novanta. Nel primo, possiamo immaginare un Provenzano ragazzo, che lascia il proprio paesino con gli occhi rivolti verso la “città” e gli artisti che la abitavano, in cerca di esperienze, con i padiglioni auricolari aperti all’ascolto dei maestri e pronto ad applicare il suo fermento. Dentro il petto, l’amore e il superamento dei luoghi dell’infanzia, immagazzinati per non perdere identità, o trattati per tramutarli in figura artistica, seppure in aspetti drammatici, e spettacolari. Nel secondo, ovvero l’arco di tempo, abbiamo una continua ricerca, molto vasta e tenace, che lo hanno portato ad assorbire e comprendere le avanguardie degli anni Sessanta e Settanta, e una presa di coscienza che probabilmente sorge negli anni Ottanta. Ma la meditazione dei Novanta, lo accompagna a ciò che Provenzano è oggi: l’eleganza senza dubbi, dal 2000.
   
Campi di grano
La sua pennellata parla. Avvicinando i nostri occhi ai dipinti avremo il racconto della memoria di Provenzano, che man mano è diventata sempre più estetica, sempre più spessa. I paesaggi rupestri delle due belle cittadine citate, spesso analoghi, sono state perfettamente incluse nell’esperienza del pittore, il quale le ha successivamente espresse quasi fondendole. Unica nota, l’esclusione del mare, se non per brevi accenni cromatici. Perché? Semplice: il mare è desiderio per Provenzano, e il desiderio è infinito. Così, l’infinito si condensa (come soltanto un pittore sa fare), accennando l’azzurro, esprimendolo nella sua sintesi: una sottile scelta cromatica. E la meta è raggiunta. 


Due studi per cronaca nera
Accanto ai paesaggi urbani visti nella loro realtà, dipinti senza aggiunte, ma quasi come se si trattasse di una scoperta archeologica ripulita dalla polvere del tempo e rese materia intoccabile, c’è un altro Provenzano. C’è un Provenzano in cui l’emozione è molto più del semplice tratto perfetto: ed è emozione pura, imitata nella sua inafferrabilità. Qui prevale la malinconia profonda e la stasi silenziosa, o forse, per alcuni, spaventosa. Strade desolate, palazzi distrutti, carne insanguinata su un piatto, teste mozzate di ovini, pagine di cronaca accartocciate; tutto è riportato sulla tela rispettando ogni volume geometrico: sì, tutto è lucido. Il contenuto, però, è un indagine profonda, che sta a noi intraprendere. E scoprendo che tale lato irritante è il raggiungimento dell’essenza tragica della vita, il palcoscenico si apre e noi assistiamo al realizzarsi di una sceneggiatura dinamica: il nostro appigliarci sugli spigoli dell’abisso. Questa parte del pittore, a mio avviso, non è affatto determinata da pennelli e oli, ma sguscia fuori dal pensiero e colpisce direttamente il fruitore; non è facilmente comprensibile, ma per tale motivo genuina.

Studio per ritratto di Simone
            Avvolti dalla quiete sono i ritratti. Ma si tratta di una quiete apparente. È qui, infatti, che Provenzano riesce a far danzare gli schemi. L’equilibrio viene adornato dalla tensione: le figure in riposo, con il perno solitamente al centro del dipinto, sono caricate di energia, la quale è associata alla buona suddivisione delle proporzioni dello spazio accanto le figure. L’intersezione tra fondo, spesso con rimandi orizzontali, e direzioni verticali dei corpi e dei volti, generano la danza a cui mi riferisco, che in alcune parti è accentuata dall’inserimento di vortici profondi, come una coperta che si ingloba su se stessa. Il gioco degli elementi, che si controbilanciano agonisticamente, ci riportano alla quiete iniziale.

Arrivati a questo punto, terminiamo. A congiungere le due storie, cioè il passaggio da Naro ad Agrigento e l’arco di tempo, è una pietra di origine vulcanica: il tufo. Perché? Provenzano non lo dirà mai, o, se lo dirà, sarà per zittirci; e io non lo dirò mai, o, se lo dirò, sarà per zittirmi. Tutto deve essere lasciato nel dubbio, come dubbiosa è questa antica pietra, affascinante, plasmabile, in respiro: luce e forza dei paesaggi di Provenzano, sentimento del sole al tramonto. 

Dario Orphée