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Le tante anime e voci della poesia di Derek Walcott

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Mappa del nuovo mondo
di Derek Walcott
Adelphi, 2008
pp. 165


Questa settimana mi è capitato di rileggere Mappa del nuovo mondo, traduzione italiana dei Collected Poems di Walcott (New York, 1986), edito presso Adelphi nelle traduzioni di Barbara Bianchi, Gilberto Forti e Roberto Mussapi. Negli stessi giorni ho avuto la fortuna di incontrare lo stesso poeta venuto a Milano il 12 aprile per la consegna del premio Montale. La lettura delle poesie di Walcott, premio nobel per la letteratura nel 1992, è un’esperienza forte perché dentro vi si mescolano tanti umori e voci del nostro tempo. Le parole del poeta caraibico hanno una forza generativa che poche altre possiedono, a volte sono calme, altre mosse come il mare delle isole da cui proviene, terra da cui attingono linfa i suoi componimenti che sembrano fatti della stessa materia di Santa Lucia, sua isola natia. La poesia di Walcott nasce da un’esigenza identitaria vigorosa perché si pone, in qualche modo, come atto fondativo della letteratura di un paese che è sempre stato multietnico, ma soprattutto è “multidentitaria” perché si nutre di voci e lingue di più parti del mondo (olandese, inglese, francese, swahili, giapponese, patois creolo, spagnolo..). Come la sua terra, anche il canto del poeta diventa crocevia di lingue, idiomi, tratti somatici, culture diverse e, d’altronde lui stesso ha esordito il discorso a cui ho assistito dicendo: “Il fatto che io parli inglese è un incidente storico”. Walcott non potrebbe essere compreso se non si approfondisse fino in fondo il senso energico e viscerale della lingua che usa perché la sua poesia è linguaggio puro, è gioco combinatorio di spiriti differenti. In Metamorphosis scrive:
Slowly my body grows a single sound,
Slowly I becomeA bell,
An oval, disembodied vowel,
I grow, and owl,
an aureole, with fire.
Lentamente il mio corpo si fa un solo suono,
lentamente diventouna campana,
un’ovale, incorporea vocale,
mi faccio gufo,aureola, fuoco bianco.
Nel più incisivo autoritratto che il poeta ci ha consegnato leggiamo:
I’m just a red nigger who love the sea, 
I had a sound colonial education, 
I have Dutch, nigger, English in me,
 and either I’m nobody, or I’m a nation
Io sono solamente un negro rosso che ama il mare,
ho avuto una buona istruzione colonial,
ho in me dell’olandese, del negro e dell’inglese,
sono nessuno, o sono una nazione.
Derek Walcott, 2012. © Andrea Mosconi 

La sua poesia ha gli spazi infiniti del mare e parte della realtà locale di Santa Lucia, con i suoi colori e il profumo del mare (And on each kiss the harsh sea-taste / E su ogni bacio il sapore aspro del mare) per estendersi all’universale. Nonostante l’inglese sia la lingua principale dei suoi testi, si evince lo sforzo di dare legittimità e intensità alle lingue povere, dei dimenticati, dei popoli coloniali. I versi di Walcott sono materici e concreti, si ancorano prepotentemente alla realtà storica, ne denunciano gli sviluppi drammatici, come si legge nella potente A far cry from Africa (Un lontano grido dall’Africa):
The gorilla wrestles with the supermanI who am poisoned with the blood of both,Where shall I turn, divided to the vein?I who have cursed
The drunken officer of British rule, who chooseBetween this Africa and the english tongue I love?Betray them both, or give back what they give?How can I face such slaughter and be cool?How can I turn from Africa and live?
Il gorilla lotta con il superuomoio, che sono avvelenato del sangue di entrambidove mi volgerò, diviso fin dentro le vene?io che ho maledetto l’ufficiale ubriaco del governo britannico, come sceglieròtra quest’Africa e la lingua inglese che amo?Tradirle entrambe, o restituire ciò che danno?Come guardare a un simile massacro e rimanere freddo?Come voltare le spalle all’Africa e vivere?

Si avverte il dolore di un conflitto interiore che, ancora una volta, diviene conflitto linguistico (come ha scritto Brodskij, “Walcott parte dalla convinzione che il linguaggio è qualcosa che supera in grandezza i propri padroni e i propri servitori, e che la poesia, è perciò uno strumento di arricchimento personale per gli uni e gli altri”). Il poeta non rinuncia a definirsi “nigger” ma rivendica la scelta illustre dell’inglese come lingua d’elezione. Dentro questa lingua, si trova un’ampia eco di grandi nomi: da Omero a Lucrezio, da Dante a Rilke, da Apollinaire a Donne, passando per Ovidio,
Baudelaire, Conrad. Una poesia intrisa di tradizioni e traduzioni, insomma, che anche in questo caso, non sa essere se non multiculturale. Walcott ci consegna, a questo proposito una grande dichiarazione di poetica:
One could abandon writingFor the slow-burning signals of the greatTo be, instead,
Their reader, ruminativeVoracious, making the love of masterpiecesSuperior to attempting to repeat or outdo them,And be the greatest reader in the world.
Si potrebbe anche smettere di scrivereper seguire i segnali dei grandi – un lento fuoco –e diventare, invece,)(il loro lettore ideale, ruminantevorace, che antepone l’amore per i capolavorial tentativo di ripeterli oppure superarli,e diventare il più grande lettore del mondo.

Costruisce un discorso epico che sa raggiungere picchi di universalità profonda; pur senza abbandonarsi ad accenti di disperazione, il poeta è cosciente del fatto che: Time makes us object, multiplies our natural loneliness […] God’s loneliness moves in His smallest creatures (Il tempo di noi fa tanti oggetti, moltiplica la nostra solitudine […] la solitudine di Dio si muove nelle Sue più minuscole creature). Non è raro, inoltre, che la poesia sia associata all’esperienza religiosa, venendo dipinta come vocazione che ha il fine di preservare l’innocenza e di condurre a una pienezza di gioia: Now, I require nothing from poetry but true feeling: no pity, no fame, no healing (Ora, non chiedo nulla alla poesia, se non vero sentire: non pietà, non fama, non sollievo).

La varietà dei temi si traduce anche in varietà metrica e di costruzione del discorso poetico con alternanza di testi improntati all’essenzialità formale e veri e propri monologhi lirico-narrativi, come si vede dai componimenti Blues e The Schooner Flight, considerato uno dei capolavori di Walcott, vero e proprio piccolo poema epico, che si legge come un racconto lungo, incentrato sul tema del viaggio, dell’identità coloniale, della storia (caraibica e non) in senso lato: I met the History once, but he ain’t recognize me, a parchment Creole, with warts like an old sea bottle, crowilng like a crab (Ho incontrato la Storia, una volta, ma non mi ha riconosciuto, un creolo incartapecorito, pieno di verruche come una vecchia bottiglia di mare, che strisciava come un granchio).
In definitiva, non è possibile – né probabilmente giusto – restringere Walcott entro un’unica identità, definirlo modernista, né tradizionalista né realista, come suggerisce Brodskij nell’elogio che tesse del poeta di Santa Lucia nel 1983 e che Adelphi ha scelto come introduzione al volume delle poesie tradotte. Quello che resta è il senso di una parola a volte violenta come un uragano (uno dei testi migliori, non a caso, si intitola Hurucane e cerca di ripetere, con il suo ritmo, la forza dell’uragano), a volte quieta come il mare al mattino (The amen of calm waters, recita la poesia A sea-chantey). Ma più ancora rimane la fede nelle potenzialità della parola poetica che rischiara il senso delle cose e denuncia le ingiustizie. Il tutto si lega inscindibilmente a un humus linguistico e letterario unico nella sua varietà, quel sentirsi parte di un disegno più grande, un disegno universale e tanto, troppo umano.

Claudia Consoli