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La “Tessitrice” della poesia

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La tessitrice di parole
di Erica Gazzoldi
Serra Tarantola Editore, Brescia 2011

pp. 136
€12

Immaginatevi pellegrini di un sogno. Immaginate di trovarvi per le campagne della bassa Lombardia, nel bresciano, in cerca di un albero che possa offrirvi ombra. Durante il vostro cammino, notate una donna seduta a ridosso di un torrente. Tra le sue braccia, ella stringe una borsa stracolma di… parole. Sì, parole intrecciate tra loro, intrecciate mediante rime e dolci assonanze. Ogni treccia, una storia. C’è la treccia che racconta di raggi di sole chiusi in un vasetto, quella che racconta il pianto di un glicine, oppure quella che canta brusii di formiche, canzoni di innamorati e di giullari. Erica Gazzoldi, giovanissima poetessa nata a Manerbio nel 1989, per il suo libro di esordio ha raccolto tutti i doni fatti dalla “Tessitrice di parole”, strana musa che accoglie i pellegrini della letteratura. «La Tessitrice di parole è un mio “alter ego”; mi è venuto in mente negli ultimi tre anni, pensando al mio processo creativo, che consisteva nel fare e disfare trame di parole, come in un lavoro paziente e meticoloso di tessitura», racconta l’autrice. Un corteggiamento, quello della Gazzoldi, rivolto alle parole; un corteggiamento paziente, che avviene con lentezza, quasi invitando le sillabe e imbastendole con la cura di un’esperta sarta, affinché la musicalità di ogni singola poesia risulti, nel complesso, eco di antiche canzoni. Ago e filo diventano versi e sintassi tra le mani della “Tessitrice”, ovvero nella penna di Erica Gazzoldi:
 […] Con dita di nebbia, sfogliam le voci
tessute, come le aranee, ai crocicchi
fra le braccia di metalliche croci;

ne rubiamo tremuli, implumi scricchi
e li portiamo nelle nostre alcove
per farne parole che il sole appicchi. […] (Pag. 9).
Questo il misterioso lavoro dei poeti i quali, dal nulla, donano agli uomini “tremori e carezze” (Pag. 9).
Tante le influenze: la mitologia greca e i canti biblici, la letteratura latina e la poesia stilnovistica e francese di fine ottocento (tali influenze sono presenti sia nel linguaggio, sia nella struttura). Se si volesse usare la pittura per comunicare immediatamente ciò che si “vede” tra le poesie de “La tessitrice di parole”, si potrebbe indicare una somma delle opere di Gustav Klimt. Non mi riferisco all’inquietudine espressa dal pittore austriaco, ma all’uso “luminoso” dei simboli, che Erica Gazzoldi dissemina nelle poesie: «Se dovessi pensare ad un pittore, mi verrebbe in mente Edvard Munch o Gustave Moreau… Ma il simbolismo ed il luminismo di Gustav Klimt mi affascinano parimenti. Le influenze che Lei ha elencato sono effettivamente presenti e non sono casuali. Ne “La tessitrice di parole” è confluito, più o meno, tutto il mio attuale bagaglio culturale». E tutto il bagaglio esistenziale: dall’interpretazione della realtà, ai più discussi temi della contemporaneità italiana. Erica Gazzoldi, difatti, alterna canti a riflessioni:
Sono un urlo
impigliato
nelle ossa del costato. (Pag. 88).
Cosa la spinge a definirsi “urlo”? «L’“urlo” è qualcosa che mi è connaturato fin dalla nascita. Pensavo proprio all’urlo del neonato che viene al mondo, che sente i polmoni bruciati dall’ossigeno. E quel primo sfogo di dolore è anche la prima proclamazione della sua rabbiosa voglia di vivere, di respirare. In me è rimasto vivo quel neonato». La fiducia nei confronti dell’esistenza, che affiora tra i versi in maniera tenera, è un aspetto che si ritrova spesso ne “La tessitrice di parole”. Tuttavia, dire “sfogo di dolore”, e aggiungere poco dopo “rabbiosa voglia di vivere”, mi lascia perplesso. Perché dovrebbe essere una “voglia”, tale sfogo? Perché non è, invece, ciò che mi pare più evidente: un pianto? Insomma, la “prima proclamazione” del neonato, come lei la definisce, non è forse l’estrema proclamazione dell’umanità (o avvertimento)? «Ho la sensazione che fra il “pianto” e la “voglia”, a volte, il diaframma sia molto sottile. Si piange perché si desidera, perché si ha “voglia” di qualcosa. Perlomeno, quando io piango, è il segnale che mi sto dando un nuovo slancio -ed è per questo che il mio pianto è molto violento-. La presenza di dolore è un segno di vita, anche in senso fisiologico. Mi sembrerebbe ancora più terribile un’unilaterale apatia, l’assenza di pianto e di riso indifferentemente». Sono ancora più perplesso di prima. Che il “diaframma” tra argomenti così importanti sia sottile, mi dimostra quanto confusione ci sia nell’esistenza. Del dolore possiamo fare un “segno” di vita, di ciò che non capiamo possiamo affermare quello che ci pare (o ci piace). Ovviamente, sarebbe più terribile se i sentimenti non ci fossero: avremmo pochissimo da raccontarci e ci annoieremmo… Ma forse i sentimenti ci dicono qualcosa, e noi non li ascoltiamo? «Sì, nella vita c’è confusione. E ciò è riflesso anche dalla natura originariamente frammentaria dell’opera, che la “Tessitrice” si è sforzata di ricomporre in un tessuto. I sentimenti ci dicono qualcosa? Li ascoltiamo o no? Il problema principale sarebbe comprendere la lingua parlata dai sentimenti. Anzi, più probabilmente, le linguE. E una di esse è proprio la poesia. In fondo, chi è la “Tessitrice di parole” se non una sorta di fata postmoderna votata a comprendere questa lingua, a trarre un messaggio dalla confusione dei sentimenti e dell’esistenza? Per questo non può morire: perché il suo compito non si esaurisce mai».
Tre sono le sezioni della raccolta. E tanti sono i segreti. Erica Gazzoldi potrebbe svelarcene alcuni? «Le tre sezioni della raccolta cercano di ricondurre ad un filo componimenti che sono nati come “fragmenta”, in spirito petrarchesco, per intenderci. La prima conta 73 poesie, laddove 7 e 3 sono i numeri (rispettivamente) della completezza e della perfezione. La seconda ne raccoglie 40, numero del passaggio e del cambio di generazione (passaggio fra la prima e l’ultima sezione; crescita artistica personale). La terza raduna le ultime 8 (numero dell’eternità), quelle caratterizzate da uno spirito maggiormente stilnovistico. Il totale è 121, numero bifronte e “circolare”, che vorrebbe alludere ad un’unità. Nonostante questi rimandi alla numerologia medioevale, che vorrebbero ricomporre i “fragmenta”, “La tessitrice di parole” non riesce a dissimulare la propria natura fondamentalmente aperta e sospesa. Sospeso è il dialogo fra l’“io” maschile e la tessitrice, del quale sono ignote perfino le coordinate spazio-temporali e potrebbe, pertanto, aver luogo ovunque ed in qualunque momento. Aperta è la traccia unificatrice di ciascuna sezione: la prima è all’insegna dell’incontro e dell’iniziazione alla poesia, all’arte di tessere le parole (e raccoglie, infatti, i componimenti meno recenti); la seconda è dominata dalla notte, dal sogno e dalla luna, astro che guida nel buio, ma che è spesso accostato alla follia (vedasi l’aggettivo “lunatico”). La terza sezione contiene intuizioni di eternità, venate però dalla malinconia dei petali di rosa che si disperdono nell’abisso del tempo (cfr. “L’immortale”)».
Di parole è fatta la “Tessitrice”, dunque. Sarà immortale?, chiede la Gazzoldi al termine della “ricerca”. Ciò che la sua musa le risponde, ci illumina con un enigma: 
[…] Finché le [parole] non moriranno, così sarà di me. […] (Pag. 126).

Dario Orphée