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Carl Ove Knausgard, La mia lotta (1)

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La mia lotta (1)
di Karl Ove Knausgard 
Ponte alle Grazie, Milano 2010
 
ed. orig. 2009
pp. 489
€ 18.60

Per certi versi questo romanzo (probabilmente meglio definibile nell’accezione più ampia possibile di prosa letteraria autobiografica) è sconcertante. Diviso in due parti, di cui la prima è ulteriormente suddivisa in due capitoli, è il primo volume dei quattro già pubblicati in patria. Tra i primi due capitoli – la rievocazione di un ricordo infantile e la descrizione per sommi capi della situazione esistenziale dello scrittore durante il tempo della scrittura – e tutto il resto (ovvero tra le prime 50 pagine e le rimanenti 430) vi è una tale differenza di ritmo, di scrittura e di resa stilistica da lasciare sconcertati, appunto. Da un inizio molto suggestivo e coinvolgente centrato sull’immagine sociale della morte (un melodioso e pacato ritmo riflessivo) si passa, attraverso un collegamento volutamente esplicito, dal collettivo all’individuale, dalla società all’io. Viceversa il secondo (ancora suggestivo e coinvolgente) capitolo si avvale di un ritmo più che sostenuto e risponde ad un ansia comunicativa di cui si percepisce l’urgenza. Tutto il resto (ripeto 430 su un totale di 489) è faticoso, lento, ripetitivo, non coinvolgente, sprovvisto di lievito letterario. Non mancano, qua e là, pagine di un qualche valore, ma il tono di gran lunga prevalente è piattamente descrittivo. 
Una delle chiavi di questo stile narrativo è proprio la ripetizione di situazioni, di frasi, di parole. Quasi ogni singola battuta dei dialoghi è seguita dalla parola ‘annuire’; la frase “‘la vida è una lodda’ disse la vecchia che non sapeva pronunciate la t” è ripetuta almeno cinque volte in contesti e situazioni diverse senza che (specie nell’ultima occorrenza) la ripetizione pure e semplice appaia significativa; il protagonista più volte, almeno tre, ‘strizza e poggia lo straccio sul bordo del secchio’. Si potrebbe continuare quasi indefinitivamente, ma quel che importa è sottolineare il carattere intenzionalmente documentario della scrittura, carattere che è riscontrabile anche in numerosissimi microepisodi dettagliatamente descritti che, però, rimangono irrelati, avulsi dal resto della narrazione.
Si racconta che per dissetare il suo popolo durante la marcia nel deserto, Mosè percosse due volte il bastone contro la roccia, Knausgard batte più volte la sua penna sulla bruta materia narrativa, ma il bastone di Mosè era alonato dalla fede nello spirito divino, la penna di Knausgard, invece, sembra del tutto sprovvista di fede nella trasfigurazione letteraria.

Nonostante gli espliciti riferimenti letterari e culturali (Proust, il modernismo) e la tematizzata differenza tra il naturalismo pittorico e letterario ottocentesco rispetto alle più inquiete e problematiche espressioni artistiche novecentesche, nei fatti (che in letteratura significa nel modo di trattare e porgere la materia narrativa), Knausgard rimane ben al di qua di quelle espressioni. Se L’Urlo di Munch è l’emblema di un nuovo rapporto tra l’uomo e il cosmo (non più l’uomo di fronte al cosmo, bensì il cosmo dentro l’uomo – semmai alle parole esplicite di Knausgard occorrerebbe aggiungere che per di più si tratta di un cosmo incomprensibile e angosciante), per cui il mondo dev’essere introiettato per poter essere rappresentato, lo scrittore norvegese è lontano da un tale risultato: il mondo di knausgard è tutto esterno (compreso se stesso in quanto personaggio), lo spazio e il tempo sono dati a priori entro i quali si collocano il tempo quantitativo (date e orari) e lo spazio materiale (luoghi reali) che circoscrivono l’esperienza esistenziale dello scrittore (o, il che sarebbe auspicabile, del personaggio). La stessa consequenzialità logico-cronologica non è messa in discussione (e qui torna utile l’osservazione sul fatto che il passaggio dal collettivo all’individuale di cui ho detto all’inizio è esplicitato).

Non si può escludere che i successivi volumi di quest’opera, costringano il lettore a fare ammenda della sua severità, quel che però è certo è che lo scarso (per lunghi tratti, nullo) interesse suscitato dalla vicenda narrata non proviene da un difetto di essa (non c’è materia o vicenda che non possa essere innalzata all’empatia letteraria), ma dal modo di trattarla e porgerla e troppi sono gli elementi (e troppo radicati) che non fanno ben sperare per il seguito.  

Paolo Mantioni