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Dialogo immaginario con Jacques Lacan

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Dialogo immaginario con Jacques Lacan
di Gabriella Ripa di Meana
Nottetempo, 2010

€ 6.00

Questo libro dall’aspetto di un vademecum ripercorre, nell’atto unico di un suggestivo dramma, il valore e il significato dello sguardo psicoanalitico per la storia della cultura. Gabriella Ripa di Meana costruisce immagina un colloquio in cui il paziente è Lacan e l’analista – possiamo tranquillamente supporlo, anche se non è mai apertamente dichiarato – è l’autrice stessa. Il gioco degli specchi e dei paradossi si completa con l’oggettivazione, essendo per definizione impossibile la comparsa di un io narrante in un dialogo. L’analista che interloquisce, inoltre, è anonimo: possiamo supporre che rappresenti una sorta di tribunale dell’inconscio dietro a cui l’autrice, si nasconde, assumendo un significato scientifico universale. Viene in mente che forse è questa la ragione, seconda soltanto alla prolungata fedeltà verso l’agrafia del maestro, per cui anche Platone scrive prevalentemente dialoghi, in cui egli stesso si cela dietro altri personaggi.
L’impianto della scrittura di Ripa di Meana, per rimanere in tema, è fortemente filosofico, almeno se nell’alveo della filosofia si vuol comprendere innanzi tutto l’interrogazione perpetua sul senso delle varie attività umane: sul linguaggio, soprattutto, che sappiamo essere stato il nucleo forte e insieme irrisolto della ricerca teorica di Lacan. La parola in sé, più ancora che la parola di Lacan, è protagonista di un dialogo che in alcuni tratti lascia prevalere l’armonia e in altri il contrappunto, in perfetto equilibrio chiaroscurale.
“Senza il linguaggio” avverte Lacan – paziente “l’umanità non farebbe un passo avanti nelle ricerche del pensiero”. 
In questa sinfonia polifonica della scienza dell’inconscio, se Lacan è il direttore d’orchestra, Freud è il compositore, colui senza il quale nessun concerto sarebbe mai stato avviato. Lungi dal fondare semplicemente una nuova scienza, Freud è colui che ha acceso il sospetto sulle infinite potenzialità del linguaggio e sulla forza, evocativa assai prima che terapeutica, della parola. La “cosa” lacaniana, il reale è lì che aspetta e minaccia con la sua presunta sensatezza, che è l’origine vera del sintomo: la parola analitica ha proprio il compito di liberare dal pregiudizio della ragionevolezza, di “spingere il soggetto verso l’impossibile”. Questa è la continuità segreta fra compositore e direttore d’orchestra, questa l’interpretazione che il secondo ha fatto dell’opera del primo, dandole voce. Nel frattempo però qualcosa è accaduto, qualcosa che ricorda la cristallizzazione della Scolastica dal pensiero di Aristotele: la psicoanalisi ha iniziato ad aspirare a diventare scienza, vittima del pregiudizio ormai destinato a ridurre ogni ricerca a pensiero unico, pantecnologico, acclarato. Sta andando perduta, oppure forse è già andata perduta la fluidità di una ricerca inizialmente mimetica, coestesa rispetto alla fiumana simbolica del linguaggio. L’epistemolatria, così possiamo chiamarla, sta costruendo a proprio monumento una specie di Chiesa altrettanto dispotica, ottusa e oscurantista:
“c’è un dio atomo, un dio spazio”, 
avverte l’illustre paziente. E se vince la scienza (come scientismo) e la religione (come oscurantismo), sarà la fine di una ricerca duttile e sfuggente come l’oggetto modellato dal suo stesso linguaggio: l’inconscio.

A questo punto il concerto si conclude con la nota dissonante che ci fa capire la vera ragione per cui Lacan è il paziente di questa seduta: la sua stessa ricerca ha subito una cristallizzazione paralizzante, lontana dalle intenzioni e dall’energia del maestro. Il tecnicismo esasperato ha infettato la psicoanalisi, che era partita come afflato d’ indagine sui moti più sfuggenti dell’uomo, e rischia ora di farla somigliare a una banale macchina di risoluzione dei problemi, a un’ottusa fabbrica di sazietà. Si sta dimenticando il potenziale creativo dell’angoscia: la si degrada a puro tempo perso, a esperienza inutile e intollerabile.
“La nostra civiltà, così matura, così completa, così avveniristica ha più di un piede nella decadenza. Povera di sublimazione e insufficiente di spirito, è appiattita nell’immanenza”. 
Anche la dottrina lacaniana, ridotta a irrigidimento scolastico, ha subito il degrado dell’ “ipse dixit”. “Il Fool che l’abitava” conclude l’analista “è morto”. Dopo un ultimo duetto, che dopo l’iniziale dialettica diviene tristemente monocorde, l’ombra di Lacan, delusa, scompare.
L’autrice non azzarda soluzioni, non finge ipotesi, non propone ricette; altrimenti, forse, invece di un’opera così veloce e originale avrebbe scritto un tomo di dieci volumi. Anzi, dietro l’angolo c’è ancora il paradosso: inversamente al famoso giudizio di Nietzsche su Cristo, da lui definito l’ “unico cristiano”, l’autrice conclude che forse Lacan stesso non era lacaniano, se ha suscitato nei suoi discepoli proprio quella fissità che combatteva. Che fare dunque? Ciò che possiamo raccogliere, da questo excursus piuttosto scorato sul destino di uno degli sguardi più profondi e vivi sull’uomo, è una difesa coraggiosa del pensiero da condizionamenti, manierismi e acquiescenze; anche quando ciò appaia culturalmente difficile, se non impossibile e mai tentato. Ricominciare da capo, forse, come in una salutare ekpyrosis:
“perché l’oblio non dimentica, ma – nelle lacune dell’assenza – ritrova e reinventa”.

Alessandra Paganardi