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Juke-box satisfaction

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Saggio sul juke-box
di Peter Handke

Garzanti, 1992

Cercare in un luogo lontano dalla propria terra d’origine la forza per dedicarsi ad un’impresa: la stesura di un saggio su un oggetto in estinzione. Ricercare le sonorità coperte dai rumori dell’individualismo per parlare del juke-box. Come alzare la polvere del proprio passato che neanche i mattoni cadenti del muro di Berlino riescono a seppellire. Dietro il personaggio del racconto c’è lo stesso Handke che rifiuta di trattare l’evento del momento, la caduta del Muro, con l’ambizione di scrivere invece un epos universale attraverso un oggetto secondario che ha incantato intere generazioni e ora resiste solo in qualche bar sperduto e “non del tutto serio” della meseta spagnola, dell’Italia, del Giappone. Questo non –saggio, diventa piuttosto un racconto di quel viaggio che è anche spazio per scolpire il rapporto del personaggio con la scrittura. Ricorda la storia narrata da Handke in Falso Movimento (1975), dove il giovane Wilhelm parte per trasformare quel suo malessere in energia, affinché possa mantenere viva la volontà di scrivere se non la scrittura :
“Si vuole scrivere senza sapere cosa. Si ha bisogno non di scrivere ma di voler scrivere … Allo stesso modo forse anche amare non è un bisogno come lo è invece il voler amare”.
Non si leggerà infatti un saggio sul juke-box, se ne parlerà come il protagonista parlerà dei posti della Spagna che si fanno immagini nitide nel corpo del racconto. L’assenza di un vero e proprio saggio lascia posto alla frammentarietà della narrazione, qua e là allietata da una storica colonna sonora composta dai pezzi che egli ricorda: Satisfaction dei Rolling Stones, il pezzo che probabilmente ha resistito di più nei juke-box, Love me do dei Beatles e qualche pezzo da indovinare dei Creedence. Un oggetto, il juke-box , che noi più giovani immaginiamo come uno dei simboli della storia musicale del dopoguerra, una dimensione pubblica dell’ascolto perduta con l’invasione meccanica della tecnologia. Dovremmo riflettere sul fatto che abbiamo perso un mezzo per sfiorare l’onnipotenza: entrare in un locale e decidere il pezzo che tutti, proprio tutti avrebbero dovuto ascoltare. Pasolini definì criticamente il juke-box come
“il proseguimento americano della guerra con altri mezzi”.
Oggi però si può rimpiangere almeno la sua poesia, evocata tra luci in movimento e storie d’amore nate dalla dedica di un pezzo, rispetto ad altri mezzi che continuano ad essere espressione di quello stesso imperialismo ma che di poesia hanno ben poco. Un coinvolgimento attivo e collettivo, del tutto differente dalla solitudine protettiva da iPod o dall'ascolto passivo del pezzo che ha messo su il dj di quel bar.

Il viaggio che inizia sulla corriera da Burgos a Soria rimane forse un falso movimento come quello di Wilhelm: incapace di muoversi all’interno di se stesso, compie un viaggio all’esterno del sé che non gli permette di comprendere a fondo quella sensazione d’inospitalità che prova nei posti in cui si ferma, la stessa che lo spinge poi alla fuga e giustifica il suo continuo rimandare l’inizio del saggio. Alla fine leggiamo comunque una storia, non sarà quella del juke-box scritta da uomo, ma è la storia di uomo segnata dalla presenza di questa macchina in quelle fasi della sua vita che ora si chiamano ricordi.