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Il Gorgia: la Giustizia e il tiranno

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Gorgia
di Platone

Il Gorgia è considerato una svolta decisiva nell'itinerario del pensiero politico di Platone, la tappa mediana fondamentale verso il modello normativo (paradeigma) della kallipolis, compiutamente espresso nel masterpiece della Repubblica. E' il dialogo della rottura, della separazione di Platone dall'ideale pienamente volontaristico del maestro, Socrate: esso è forse la fine dell'apologia (incondizionata) di Socrate.

Il Gorgia può essere diviso in tre atti, tre tentativi di confutazione dialettica di Socrate contro tre rappresentanti della retorica: l'anziano maestro e rispettato Gorgia, poi il giovane e irruento allievo Polo, e infine Callicle, il temibile demagogo democratico. Platone, dunque, ingaggia nel Gorgia una critica serrata alla retorica, l'abilità oratoria la cui decisiva rilevanza di strumento politico nell'Atene democratica, nelle sue Assemblee, e nei tribunali, non può essere sottovalutata: egli tenta di screditarla, destrutturandone la pretesa di essere una tekne autonoma, e concependola come una improvvisata abilità empirica (empeiria), più affine all'adulazione che alla scienza. La retorica, infatti, é incapace di conoscere il Bene dei cittadini, ma prontamente ne compiace dannosamente e senza criterio i più mutevoli piaceri: come una folla preferisce un cuoco, che la lusinga con intingoli e manicaretti gustosi, ma rovinosi per la salute del corpo, al medico, che, possedendo saldamente la scienza di ciò che è bene per la salute fisica, ammette la necessità di poter somministrare medicine spiacevoli, di intervenire chirurgicamente procurando dolore, e cauterizzare, così i cittadini democratici, stoltamente, preferiscono la persuasione infondata della retorica alle salde e coerenti argomentazioni del filosofo, che sole possono fondare un governo della polis orientato al Bene dei cittadini.

I dialoganti (e Platone, indirettamente) mostrano una disposizione di rispetto nei confronti dell'anziano Gorgia (come sarà per Cefalo nel I Libro della Repubblica): Gorgia è certo un avversario, ma è anche un'immagine sbiadita, ad uso polemico di Platone, di un tempo perduto, nel quale la spudoratezza dei pensieri e l'aggressività delle condotte non era ancora ostentata a virtù, come avviene nella frenetica cultura attivistica della democrazia, ma fonte di severo biasimo. Ma Gorgia è soprattutto la personificazione di una comprensione ingenua dell'essenza della retorica, che crede invano che i suoi poteri possano arrestarsi sul limen dell'eticità condivisa. Mentre, dunque, Gorgia è un individuo (almeno conformisticamente) legato a valori etici condivisi, i successivi avversari, soprattutto Callicle, in un climax drammatico, sono di certo più spudorati, e svelano schiettamente le argomentazioni cui un difensore della retorica non può, secondo Platone, non giungere: una difesa aperta del bios tirannico, cioè di quella strategia di vita finalizzata al godimento del potere come strumento per la soddisfazione dei desideri, svincolata da qualsiasi criterio etico selettivo, come legittimazione del dominio dell'uomo sull'uomo. È evidente che in una tale dimensione etica qualsiasi crimine, omicidio e malefatta sia elevato a virtù, e che Platone critichi aspramente l'Atene democratica del tempo, nella quale l'esaltazione delle mire imperiali implicava la crescita dell'aggressività e della rivalità non solo nei confronti delle altre città, ma soprattutto tra gli stessi cittadini. Una tale violenza divisiva, di stasis, intrinseca all'uso politico della retorica è, allora, un pericolo mortale per la stabilità comunitaria, in una società della vergogna, in cui la compattezza e pubblicità trasparente dell'ethos condiviso è il fondamento della koinonia, della comunità della polis. Ed è proprio Callicle, nella fase finale del dialogo, il coeforo oscuro e virulento di questo livido bios turannikos. Ora lasciamo a lui la parola, sperando che non ci sommerga con le sue insidiose provocazioni:

Il discorso di Callicle

-Per quanto i filosofi si perdano nelle loro vane sottigliezze, la verità è che la Giustizia è la ragione del più forte, e che tutti gli uomini, se potessero, desidererebbero vivere al modo del tiranno, il quale dispone di un potere così grande che da esso dipende la vita di moltissimi uomini. Tutti, infatti, bramano il potere, perché è il mezzo più efficace per realizzare i desideri: maggiore è il potere posseduto e più vasta è la gamma di desideri realizzabili. Quale uomo, infatti, non vorrebbe che tutti i suoi desideri fossero realizzati? Fare tutto ciò che si vuole è la felicità (e la libertà)! E tutti gli uomini, per natura, tendono ad essa. È giusto, perciò, per natura che in questa lotta siano i più forti a godere del maggiore potere, e ne dispongano secondo i propri desideri. Così infatti prescrivono le leggi di natura: che i più forti dominino e i più deboli siano dominati. D'altronde, la natura si struttura gerarchicamente, e, mentre gli animali deboli sono dominati, i leoni, le aquile e gli sparvieri dominano in virtù della loro forza. E nei rapporti tra gli Stati, non si nota, forse, una dinamica simile? Gli Stati più potenti subordinano con i mezzi legittimi della guerra, delle alleanze, e della violenza, gli Stati più deboli. Queste sono le leggi della natura (phusis)! Le leggi dello Stato, le norme (nomoi), invece, sono leggi della massa, dei deboli, perché vincolano i più forti ad inibire i propri impulsi di potere, ed i propri desideri di dominio (legittimati dalla loro evidente superiorità in ogni campo alla mediocrità della massa). Esse li vincolano all'eguaglianza, e alla Giustizia, parole vuote, contraffatte, belle favolette che riempiono le bocche degli stolti, e nascondono ipocritamente la verità della lotta per il potere. Costringono i forti, i superiori, i valorosi, gli aristoi, a subordinarsi a questi valori vuoti, che hanno il solo scopo di indebolire e impedire lo sviluppo di quei caratteri che per natura sarebbero destinati al governo e al dominio, e che soli sono degni di valore e di bellezza. Chi si appella a queste leggi ingannatrici vuole dominare laddove dovrebbe essere solamente disposto ad essere dominato. E la tua filosofia, caro Socrate, è davvero una bella attività, se la si pratica da ragazzi, quando lo sviluppo armonioso e sano delle attività dello spirito la richiede, ma la si abbandoni nell'età adulta, se non si vuole risultare ridicoli, dannosi, e inutili alla città! Che utilità può avere un filosofo? Egli è akrestos, inutile: non conosce nemmeno la via dell'agorà, e non partecipa alle Assemblee, ma se ne sta tutto il tempo, oscuro, rincantucciato in un angolo a confabulare con i suoi discepoli, e a pervertire i giovani, quasi tramasse contro l'unità della koinonia, della comunità dei cittadini, mentre, invece, non saprebbe nemmeno difendersi pubblicamente dalle accuse di un Tribunale che volesse sbranarlo! Come può un tale cittadino essere utile alla Città?-

In queste poche righe ho tentato di rendere conto solo sinteticamente del discorso di Callicle, diabolico, oscuramente libero, che in molti aspetti si connette alla medesima assunzione di un'antropologia negativa nell'intervento di Trasimaco, “il gigante calcedone”, nel successivo II Libro (nel celebre racconto dell'anello di Gige) della Repubblica. I problemi messi in campo così apertamente da Callicle e Trasimaco richiedono una confutazione ben più ampia, radicale, che metta in discussione l'intero impianto valoriale, l'intera eticità, sia in un'ottica individuale, che politica. E sarà questo il respiro grande, la sfida gloriosa della Repubblica. Nel Gorgia, invece, Socrate, pur rispondendo, dispone di armi dalle punte smussate. Si percepisce un disagio, un silenzio, una incompiutezza, una rottura: inizia forse qui la revisione di Platone dell'ideale etico del maestro. Nella dilaniante violenza del mondo, per rinnovare la Città è necessaria ben altro che la volontà di un singolo uomo (per quanto fosse il più giusto tra gli uomini), sono necessarie istituzioni, alleanze, e un paradigma adeguato, possibile ma difficilissimo a realizzarsi, del governo.