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La mossa del matto affogato: intervista a Roberto Alajmo

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Negli scacchi la mossa del matto affogato è quella tattica con la quale un giocatore sacrifica quasi tutti i propri pezzi ma mette nell’angolo l’avversario, vinto dall’impossibilità di muovere il proprio re accerchiato da pezzi amici. Una sorta di suicidio indotto, dove lo sconfitto è causa del proprio destino mortale.
La mossa del matto affogato (Mondadori, 241 pagg. 17 euro) è anche l’ultimo libro di Roberto Alajmo, giornalista e scrittore palermitano, al suo terzo romanzo. Il protagonista, Giovanni Alagna, è un impresario teatrale privo di talento, se non quello di arrangiarsi con piccoli e grandi truffe. Sullo sfondo di una riconoscibile Palermo, viene accerchiato dalla sventure, dai creditori e dalla disperazione, in un rapido crescendo splendidamente descritto dall’autore.

Abbiamo incontrato Alajmo per discuterne insieme.

Nel tuo romanzo narri di un personaggio alle prese con piccole furberie, che a poco a poco lo soverchiano definitivamente. Ma nella vita questi personaggi spesso la fanno franca, no?
Quasi sempre. Il riferimento al Don Giovanni di Mozart, però, racconta la fascinazione e la condanna morale insieme di un personaggio ripugnante. C’è l’immedesimazione nel cattivo, mai davvero detestato. Dovendo definire in due parole il libro, userei la definizione “dramma giocoso”, un’intersecazione di due generi.

Ho trovato “la mossa del matto affogato”, un libro molto bello, con un crescendo di angoscia che avvince il lettore. Mentre, come dici tu, non si riesce a detestare il protagonista, da un altro lato i personaggi di contorno sono tutti abbastanza negativi, cialtroni, arrivisti ed egoisti. Una scelta in partenza o sono venuti fuori così durante la stesura?
Lui è un campione di una borghesia affarista, ma la moglie e le figlie, ad esempio, non sono personaggi negativi. Certamente l’humus su cui il protagonista prospera, favorisce, o quantomeno tollera, la cultura dei piccoli imbrogli. Per creare Giovanni Alagna ho preso spunto da tante persone conosciute nella mia carriera, arricchendolo con molte memorie personali.

In questa storia, come nel tuo precedente romanzo, si respira un’aria tipicamente siciliana, palermitana direi. Non temi che questo, per un autore come te, ormai stimato in campo nazionale, possa diventare un limite? Mi spiego meglio: alcuni riferimenti, certi comportamenti, perfino un modo di parlare tutto nostro, pensi che possano essere apprezzati nello stesso modo anche a Trieste?
Se io scrivessi dall’Umbria, probabilmente no. Ma la Sicilia possiede una carica metaforica eccezionale come pochi posti al mondo. Raccontando la Sicilia racconti il mondo, come l’Aleph di Borges. E d’altronde io molte cose del mondo le capisco attraverso Sciascia. O Pirandello.

Come mai la scelta di narrare questa discesa negli inferi di Giovanni Alagna in seconda persona?
Non volevo scoprire il gioco delle parafrasi di Don Giovanni. Ho messo Leporello fuori scena, voce narrante. Non voleva essere una raffinatezza linguistica, ma proprio un modo di fare entrare il lettore nella storia in modo coinvolgente. Per fare questo ho pensato a Calvino, in “Se una notte d’inverno un viaggiatore”.

Se posso trovare un denominatore comune nei tuoi tre bellissimi romanzi, è la sensazione che per questa terra le speranze di cambiamento siano ridotte al lumicino. Mi sbaglio o è questo che in qualche modo viene fuori dalle tue storie?
Se me lo avessi chiesto due anni fa, forse avrei detto altro, probabilmente adesso è proprio così. Dovremmo fare di tutto per essere ottimisti, eppure mi sembra che andiamo verso un grande collasso. Penso che entro dieci anni, tutto quanto non abbiamo fatto e affrontato in questi anni, esploderà. Dai lavori stradali mal fatti, ai precari dei call center, alle scarse professionalità in tutti campi. Solo dopo riusciremo a risollevarci, come altre volte questo paese ha fatto.

Ci lasciamo con una domanda d’obbligo: progetti per il futuro?
Fantastico, la mia domanda preferita. Sto scrivendo la biografia di un magistrato, un pretesto per una riflessione sul destino e sulla borghesia moderata, quella oggi quasi estinta, sostituita da un populismo vincente.

Marco Pomar